La “guerra” contro i burger che imitano la carne. I vegani combattono il gusto o la sostanza?
Combattiamo il sapore o la produzione? Che cosa c’è dietro all’idea che mangiare un burger vegetale significhi in qualche modo non essere “davvero” vegani?
“Ma perché volete a tutti i costi imitare le forme dei cibi carnivori, vi mancano?”, “Sì ma non chiamatele polpette…”, “Per carità io un uovo vegetale non lo mangerei, mi ricorda la sofferenza delle galline”, “Non capisco perché uno dovrebbe mangiare qualcosa he ricorda nel gusto una sofferenza morale alla quale siamo contrari…”.
Questi sono tre esempi di commenti e discussioni molto frequenti in cui è possibile imbattersi quando si frequentano siti, pagine o gruppi che si occupano di cucina vegana. Si tratta di una sorta di “guerra civile“, spesso, fra chi combatte con fervore le lettere che compongono le parole “polpette”, “burger”, “maionese” o peggio ancora “gelato” e chi invece questa dissonanza non la percepisce.
Un dibattito “interno”
Questa discussione non si genera soltanto nel dibattito sempre acceso fra onnivori e vegani, chiariamolo, bensì è spesso promosso proprio fra coloro i quali la scelta vegetariana o vegana l’hanno già intrapresa. Ricordiamo un caso eclatante, anche salito agli orrori delle cronache bianche degli ultimi mesi: produttori, industrie e grandi marche hanno combattuto affinché la parola “latte” non potesse essere collegata alle bevande estratte dai vegetali. La Corte di Giustizia gli ha dato parzialmente ragione, invitando gli “spremitori di soia e avena” a non pubblicizzare le loro produzioni con il termine “latte”. Certo, poi analizzando le confezioni già sul mercato risultò chiaro che nessuno chiamasse “latte” quello di soia, avena, riso, anacardi, ma che quella dicitura è legata al linguaggio di tutti i giorni, cosa che permane, con una certa temerarietà, anche adesso senza che nessuna notizia di arresti o purghe punitive sia giunta fino a noi. Ancora più divertente il caso di “Gary” il nome inventato da una consumatrice di formaggio classico arrabbiatissima perché anche quello vegano veniva chiamato “formaggio”: “Chiamatelo Gary, piuttosto, ma non formaggio, vi prego”.
La forma e il gusto della sofferenza
Ma ciò che crea maggiore perplessità è la questione che si genera all’interno della stessa comunità vegana: sono in molti a non voler mangiare nulla che ricordi la forma o il gusto di prodotti a base di carne e derivati. Dal più comune seitan alle uova sode vegane, dalle salsicce di soia ai gelati a base di banana ghiacciata. Allora da parte del nostro giornale, dato che il fenomeno è decisamente ampio, abbiamo deciso di prendere posizione in modo netto: noi non “combattiamo il gusto” bensì la sostanza, molto semplice. Il problema, a nostro avviso, è partire da presupposto sbagliato ossia che colui o colei che ha fatto una scelta di vita vegana, odiasse i gusti dell’alimentazione onnivora: non è così.
Forse qualcuno non ha mai amato il sapore della carne, ad altri non convinceva quello del formaggio, ma certamente nessuno ha scelto l’alimentazione vegana perché voleva allontanarsi dai sapori, alcuni certamente e senza dubbio deliziosi, dell’alimentazione onnivora. Il problema è decisamente più profondo e complesso, lo sappiamo bene: quei prodotti sono creati a scapito della sofferenza, tranquillamente evitabile, di miliardi di creature viventi e questo, per molte milioni di persone nel mondo non è più tollerabile. Sostenere che una crostata a base di burro facesse schifo, che una mozzarella non donasse un tocco impareggiabile alla pizza, che un uovo sodo ci faceva schifo ma non ce ne accorgevamo, è il più delle volte una menzogna. Detto questo non significa che l’alimentazione vegana non sia altrettanto gustosa e godereccia, anzi. Il problema è che spesso questa disputa allontana moltissimo il centro dell’attenzione, ossia il perché sempre di più persone, decidono di mangiare vegano.
I nomi sono solo accidenti
E no, il fatto che un impasto a base di legumi possa assumere la forma, comoda e pratica, di un hamburger, non significa che proviamo la classica “nostalgia canaglia” per il manzo tritato: il muscoloso bovino sta bene dove sta (o meglio “starebbe” bene), semplicemente il panino ripieno è godurioso, comodo e buonissimo, quindi perché non mangiarlo? Continueremo a chiamare “polpette” gli agglomerati di ingredienti tondi cotti in forno, fritti o in padella, e “gelato” quella crema ghiacciata, dolce e da mangiare insieme ai pancake anche se dentro non c’è il latte. Insisteremo a dire che no, non rinneghiamo il sapore del gorgonzola, ma ne rinneghiamo i reconditi processi produttivi che, lo si voglia o no sono assolutamente non più sostenibili né economicamente né moralmente, giunti a passo pesante (per il pianeta) nel 2020.
Il sapore, il gusto, non vanno combattuti: ne vanno creati di nuovi, certo, ma possono anche essere imitati (sì “imitati”) se li si è amati particolarmente, senza sentirsi pessime persone mentre mangiamo un kebab a base di seitan o un wurstel di tofu; nessuno condanna il gusto, bensì la sostanza legata alla produzione di cibi di origine animale sempre meno celata agli occhi dei consumatori. Alcune campagne animaliste chiedevano: “Questo hamburger vale la sua sofferenza?” la risposta è “Certo che no, ma se il gusto mi piace voglio cercare, con un po’ di senno, di ritrovarlo in qualche cosa che non crei danni: ce la farò? Forse sì, forse no, intanto ci provo”. Concentriamoci nel far informazione sulla sostanza perché è solo quella che potrà scalfire la mancata consapevolezza di chi, ancora, combatte il veganismo come la più grave piaga inviata dalla peggiore divinità dell’Olimpo.