Unilever e Nestlè abbandonano il mercato vegetale (forse)
Alcune indiscrezioni e analisi condotte negli Stati Uniti e riportate da Reuters parlerebbero di vendita dei principali marchi 100% vegetali di fake meat
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Il successo della quotazione in borsa di Beyond Meat, con ampia probabilità, fu galeotta per Unilever e Nestlé, le due più grandi e pervasive multinazionali legate al settore alimentare a livello mondiale. Secondo alcune indiscrezioni riportate dall’agenzia di stampa Reuters e riprese da alcuni media di settore, entrambe starebbero cercando di vendere i proprio marchi dedicati alle alterative alla carne, rispettivamente The Vegetarian Butcher e Garden Gourmet.
Perché le multinazionali “scappano”?
Ci sono notizie certe a riguardo? La sintesi estrema è “no” ma senza dubbio quando questo tipo di notizie trapela all’esterno di colossi simili, qualche sprazzo di verità è ipotizzabile. I problemi principali che le due major avrebbero incontrato sul loro percorso sarebbero:
- un mercato non così ampio come si aspettavano – proprio forse lanciati sull’onda dell’entusiasmo delle prime quotazioni in borsa di Beyond Meat
- un confronto economico fra prodotto animale e prodotto vegetale che viene sempre e inevitabilmente vinto dai prodotti a base animale che hanno un costo di produzione assorbito spesso da finanziamenti pubblici e dal fatto che i costi aggiuntivi della produzione della carne – spreco di acqua, inefficienza fra quello che gli animali mangiano e quello che producono in termini di calorie consumabili, inquinamento, deforestazione, etc. – non vengono calcolati nel prezzo finale della carne.
- una generale inflazione che sta facendo vacillare sempre di più il potere d’acquisto dei cittadini e che li spinge verso alternative (anche vegetali) ma più economiche.
- una clima politico-culturale decisamente anti ecologista e specista che ha ripreso forza come un’onda violentissima dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni americane. Basti pensare che questa retromarcia delle grandi multinazionali potrebbe – sostengono alcuni analisti americani – essere stata sdoganata definitivamente dalle dichiarazioni del nuovo Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr. che è stato critico nei confronti dei prodotti di origine vegetale, descrivendoli come “ultra-processati”.
John Spayne, socio fondatore e presidente di Spayne Lindsay & Co, una società di consulenza finanziaria focalizzata sui consumatori ha spiegato a Reuters: “I giorni dei multipli di valutazione elevati sono ormai finiti, anche se la tendenza di fondo dei consumatori verso proteine alternative a carne e latticini continua“.
Il veganesimo è finito?
Dobbiamo quindi, ancora una volta, avvalorare l’ennesimo e annunciato canto del cigno per il veganismo? È decisamente fuori luogo. Primo perché questa analisi è America-centrica e sappiamo bene che gli USA non sono mai stati la cartina di torna sole del movimento, cosa che invece si può dire per alcune aree dell’Europa. In secondo luogo perché, non c’è mai stata una vera e propria “esplosione” economico-culturale del veganismo ma una buona onda dedicata a temi collaterali come il minor impatto ambientale, le scelte più salutari per l’uomo legate all’alimentazione “più” vegetale, e via discorrendo, che si è alzata e ha mostrato i muscoli soprattutto durante la pandemia e subito dopo. È certamente vero però che quello che avviene a livello commerciale in America si riflette inevitabilmente anche nel resto del mondo, anche solo per riverbero “emotivo” delle altre aziende.
Però va ricordato che le aziende che producono “fake meat” non sono il veganismo, anzi, sono spesso osteggiate dallo stesso movimento e questo, in piccola parte – piccolissima a dir la verità – può avere a che fare anche con questa retromarcia delle major: se gli stessi vegani non trovano interessanti questi prodotti perché arrivano da multinazionali legate allo sfruttamento animale, figuriamoci “gli altri” che, fra un burger a 1 dollaro fatto di manzo (o di quello che ne rimane, dato il prezzo) e un burger a base di proteine dei piselli che costa almeno il triplo ed è anche meno “buono”, decideranno senza dubbio di salvare il portafoglio.