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Bob Comis “vendeva morte”, ora non più.
Il documentario
The last pig racconta la sua storia, quella di un
allevatore di maiali che ha deciso di
cambiare vita quando si è accorto che non poteva più guardare negli occhi quegli animali, vederli crescere, prendersi cura di loro, nutrirli, per poi condurli al macello. Non si tratta dell’esaltazione di un eroe, non è la glorificazione di un uomo celebrato come esempio da seguire; è semplicemente il resoconto intimo e poetico,
raccontato in prima persona, di una fase di passaggio, di un momento di
transizione e di chiusura col passato nell’esistenza di un uomo.
Il sentimento dello spettatore – vegano o non, animalista o non -, nei confronti di Bob è istintivamente di simpatia, fin dall’inizio. Bob, in fondo, non è certo il peggiore degli allevatori: il suo è un allevamento bio, all’aperto, dove i maiali possono correre liberamente, rotolarsi nel fango, interagire tra di loro. E’ in effetti un lavoratore attento e premuroso, si è informato per anni sull’etologia dei maiali e si impegna affinché essi vivano un’esistenza più che dignitosa (per quanto tragicamente breve).
Attraverso primi e primissimi piani, pochi e brevi pensieri espressi dalla sua voce fuori campo (non ci sono dialoghi), Bob si svela allo spettatore con onestà e sincerità, ammette le contraddizioni con cui per anni ha convissuto, confessa i suoi sensi di colpa per aver condannato a morte 2.000 maiali e mostrandosi così “nudo” e fragile, pentito e impotente davanti al mattatoio, condivide con noi la sua profonda presa di coscienza e la trasformazione in coltivatore agricolo.
Una presa di coscienza che si è tramutata nella consapevolezza che non esiste differenza tra il suo cane Monk e i maiali che alleva, che mangiare l’uno o l’altro non ha ugualmente senso, che ognuno dei suoi maiali cela dietro i propri occhi uno sguardo che risponde all’umano sguardo e che lo spettatore vive soprattutto attraverso l’uso dei dettagli, dei silenzi e dei rumori ambientali. Il grufolare dei maiali, il loro respiro mentre dormono o mangiano invadono lo schermo, rendono vivo il racconto e intimo il rapporto che il protagonista (e lo spettatore attraverso di lui) vive con queste splendide creature. Sembra di essere lì, in quei campi, tra il fango o sotto la neve, all’alba a dar loro da mangiare, a curarli se malati, a marchiarli con la vernice quando hanno raggiunto il peso di mercato, a caricarli sul camion diretti al macello. Sì, perché seguiamo gli animali fin dentro il macello, ma non è come vedere le immagini rubate dagli attivisti negli allevamenti. Le riprese sono nitide, luminose, non ci sono abusi, gli animali non vengono picchiati o trascinati in catene, non sono feriti o zoppicanti eppure è una scena tragicamente intensa, commovente, disturbante più delle immagini esplicite di morte; e questo grazie ai dettagli (dei guanti degli addetti alla macellazione, delle lame affilate, degli occhi confusi dei maiali), giganti sullo schermo, ai suoni (i rumori metallici dei cancelli di ferro e delle lame, il respiro affannato dei maiali spaventati).
Oggi Bob Comis è vegano e non alleva più maiali. Confessa che spesso questi animali gli mancano, come gli manca non prendersi più cura o imparare da loro, svegliarsi all’alba per trascorrere con loro la giornata, ma non si pente un solo giorno della scelta che ha fatto.
Il film non vuole convertire lo spettatore verso una presa di coscienza simile, né fare distinzioni su ciò che è giusto o sbagliato. L’obiettivo è quello di porre una domanda, una domanda che riguarda la questione morale in genere (al di là che si tratti, come in questo caso, delle scelte alimentari o del rapporto tra specie viventi), di rendere nota una storia che sarebbe rimasta invisibile e dimostrare che il cambiamento è sempre possibile. Come ha detto qualcuno: se non ti piace dove sei cambia, non sei un albero.
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Pubblicato il: 7 Novembre 2017
Ultimo aggiornamento: 7 Novembre 2017