Il sistema “soia” sta schiacciando tutti: animali, uomini, ambiente. Noi possiamo cambiare le cose

Nel documentario “Soyalism” degli italiani Liberti e Parenti il racconto dei pericolosi squilibri economici, sociali e ambientali provocati a livello globale dal business della soia e dal suo legame con l’industria della carne e degli allevamenti intensivi

Trattata come se fosse l’unico alimento al mondo. E’ così che la soia è arrivata oggi a dominare i mercati agricoli mondiali negando la sovranità alimentare di molte popolazioni e determinando enormi impatti sul clima. Uno scenario a tratti apocalittico che di fronte all’ombra nera proiettata dalle multinazionali dell’agribusiness indica una strada, seppur stretta, a noi consumatori: pensare al modo in cui mangiamo come uno strumento attivo per riconfigurare il sistema agricolo mondiale. Tutto questo è “Soyalism”, il documentario realizzato dal giornalista Stefano Liberti e dal regista Enrico Parenti che racconta della conquista da parte della soia dell’industria alimentare mondiale attraverso l’espansione delle sue monocolture ai quattro angoli del Pianeta. Un viaggio tra Stati Uniti, Cina, Brasile e Mozambico che indaga le ragioni profonde della connessione tra questo business mondiale e quello degli allevamenti intensivi.

La “grande porcilaia”

Nel racconto di “Soyalism”, un filo rosso collega i mega allevamenti intensivi suinicoli del North Carolina ai mattatoi cinesi, la deforestazione massiccia dell’Amazzonia ai movimenti di resistenza dei contadini africani: è lo strapotere assunto dal commercio della soia sui mercati agricoli mondiali. Lo spiega Joao Pedro Stedile, leader del Movimento Sem Terra: “In Brasile e in tutto l’emisfero Sud la soia è diventata la punta di lancia di un nuovo modello di capitale chiamato agribusiness. Si tratta di un prodotto standardizzato, un commodity uguale in tutto il mondo, facile da produrre su larga scala (qui in Brasile abbiamo imprese agricole di 240mila ettari solo di soia) e con un mercato mondiale controllato solo da 5 aziende, Bunge, Monsanto, ADM, Cargill e Dreyfus, che speculano sui prezzi e sugli stock e manipolano il mercato perché hanno trasformato la soia nella principale materia prima per l’alimentazione animale, e quindi per quella umana. Hanno trasformato il mondo in una grande porcilaia”.

E’ tutto qui il nesso che lega a filo doppio soia e allevamenti intensivi alla base dei fortissimi squilibri economici, sociali e ambientali raccontati dal documentario. Individuata come alimento perfetto in virtù delle sue caratteristiche proteiche per nutrire gli animali allevanti in maniera intensiva, la richiesta di soia a livello globale continua a crescere di pari passo a quella della carne. Lo fa seguendo il modello produttivo che si è imposto negli ultimi venti anni nel comparto suinicolo americano, quella “integrazione verticale” che ha di fatto concentrato in pochissime mani tutta la filiera della carne, con 4 aziende a controllare il 70% del mercato statunitense, dalla produzione dei mangimi ai macelli fino alla lavorazione del prodotto finito. E che ora è stato fatto proprio anche dalla Cina.

Lo scenario cinese

Più carne, dunque, più soia necessaria per produrla. Di carne, d’altra parte, c’è sempre più domanda. Da parte della Cina, soprattutto, che con la crescita del Pil e l’innalzamento del tenore di vita ha aumentato negli ultimi anni la richiesta di calorie, e dunque il consumo di carne. Benché il governo cinese abbia annunciato di volerlo dimezzare entro il 2030, allevamenti e importazioni continuano a crescere. Già oggi, racconta “Soyalism”, la Cina detiene il 47% della produzione suinicola mondiale e consuma il doppio della carne degli Stati Uniti, seppure con un consumo procapite più basso. Ma se, proprio come conseguenza del miglioramento delle condizioni di vita dei cinesi, anche questo dato aumentasse, come si risponderebbe a tale richiesta (120 miliardi sono gli animali che si stima verranno macellati per l’alimentazione umana nel 2050 rispetto ai 70 di oggi e ai 10 miliardi del 1960)? Dove si andrebbe a prendere nuova terra per coltivare la soia necessaria per nutrire tutti quelli gli animali da macello, si chiedono gli analisti intervistati nel film?

Sovranità alimentare negata

In Brasile, probabilmente, nella foresta amazzonica, che oggi costituisce il grande serbatoio di terra al quale attingere per fare spazio alle monocolture di soia. Qui, già oggi l’80% della soia coltivata viene utilizzata per nutrire gli animali da allevamento cinesi.

Ma con quali conseguenze? “Soyalism” si sofferma soprattutto sugli impatti sulle popolazioni locali, che vedono negata la propria sovranità alimentare. La coltivazione della soia su scala industriale sta di fatto distruggendo quella rurale attraverso l’accaparramento delle terre o, come raccontando i contadini brasiliani nel documentario, per l’uso massiccio di antiparassitari sulle monocolture, che finisce per spostare i parassiti sulle coltivazioni dei piccoli agricoltori, annientandole. Conseguenze simili, racconta il documentario, si vedono anche a migliaia di chilometri di distanza, in Mozambico, dove solamente la dura resistenza degli agricoltori locali sta bloccando l’esportazione del modello brasiliano legato alla soia: è l’opposizione al progetto ProSavana attraverso il quale il governo del Paese africano ha provato ad affittare la terra a prezzi bassissimi proprio ai grandi gruppi brasiliani perché vi esportassero la coltivazione della soia.

Gli impatti ambientali

Poi, ci sono gli enormi effetti sul clima causati dalla deforestazione amazzonica per fare spazio alle monocolture di soia, e all’uso di fertilizzanti per adattarne la coltivazione alle diverse condizioni del terreno e del clima. Un sistema che, raccontano gli attivisti brasiliani nel film, fa del Brasile oggi il primo consumatore al mondo di pesticidi con circa 200 milioni di tonnellate di prodotti agrochimici. E’ così che si sta distruggendo la biodivesità di uno degli ecosistemi più delicati e preziosi del pianeta.

Cosa fare?

Un quadro cupo, quello dipinto da “Soyalism”, che pure lascia aperta una via, come spiega Tony Weis, autore del libro “The ecological hoofprint” intervistato nel documentario: “Non è scontato che gli esseri umani continuino a consumare tutta questa carne. Non dobbiamo raddoppiare la produzione di cibo, ma produrla in maniera differente e pensare alle nostre diete come una parte fondamentale per riconfigurare il sistema agricolo”.

Mangiare meno carne, dunque, scegliere da consumatori in maniera attiva virando verso un’alimentazione a base vegetale come risposta al “mondo della soia” che rischia di schiacciarci tutti. Che sia un sistema, questo basato sul binomio carne/soia, incentrato su un paradosso di fondo, è forse il messaggio più chiaro che ci lascia questo bel documentario: “Se la nostra popolazione continua a crescere, un giorno non ci sarà più carne, gli esseri umani dovranno mangiare solo cereali, come facevano quando non c’era molta carne”, è infatti la chiusa affidata in perfetto stile pragmatico americano a Rick Dove, dell’ong Waterkeeper Alliance. “Puoi nutrire molta più gente con mais e soia che con la carne. Se vuoi nutrire un mondo affamato, smetti di dar da mangiare a tutte queste mucche, dai a tutti qualcosa con cui riempirsi lo stomaco. Ma qualcuno vuole arricchirsi. Dicono: ‘Vogliamo sfamare il mondo’, ma se veramente vuoi, puoi sfamare più mondo con i cereali che con la carne”.

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