Protezione delle balene: una questione (anche) di cambiamento climatico

Le balene sono ancora oggi enormemente minacciate dalla caccia commerciale, ma proteggerle può incidere positivamente anche sulla mitigazione degli effetti del cambiamento climatico

Animali tanto affascinanti quanto misteriosi, per secoli abbiamo cacciato le balene per la loro carne, per l’olio, per i denti, o per “sbaglio”, catturando altre specie marine. Solo recentemente si è scoperto il loro ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico. I delicati e intricati meccanismi ecologici degli oceani, infatti, fanno sì che i grandi cetacei contribuiscano alla cattura di CO2 in modo molto più sostanziale di quanto pensiamo, tanto che recentemente il Fondo Monetario Internazionale ha attribuito loro un valore economico sulla base dell’impatto ambientale, con la speranza che sempre più multinazionali si interessino alla loro salvaguardia. Ecco perché dimostrare l’impatto dei cetacei sull’economia, oltre che sull’ambiente, può diventare la chiave vincente per la loro protezione.

Storia delle balene e del loro rapporto con l’uomo

Ma partiamo dall’inizio. Simbolo di potere e ricchezza, ma anche protagoniste di tradizioni e culture di diverse comunità umane, le balene hanno da sempre un rapporto complesso con l’uomo. Alcuni popoli le cacciavano (e lo fanno tuttora) per sussistenza, perché non hanno altre risorse disponibili per poter sopravvivere. Per altri, invece, la caccia alle balene non è che un vezzo: le fibre delle interiora venivano impiegate nella fabbricazione di indumenti e accessori, i denti erano come amuleti per nobili e personalità di spicco, l’olio di balena un prezioso ingrediente per saponi, burri e lampade dei primi esploratori.

Ma per quanto sfruttate, le balene rimangono tra gli animali più misteriosi del pianetaLo scrittore inglese Philip Hoare nota, in Leviatano, o la balena, come abbia fatto il giro del mondo prima la foto della Terra vista dall’alto, la celebre Blue Marble (Biglia blu), scattata dagli astronauti dell’Apollo 17 nel 1972 di una balena fotografata nel suo habitat. “Abbiamo scoperto com’è fatto il mondo – scrive – prima di scoprire com’è fatta una balena”.

Nel 1986, l’International Whaling Commission (IWC, la Commissione internazionale contro la caccia alle balene) ha introdotto una moratoria per frenare la diminuzione del numero di esemplari di diverse specie di cetacei. A oggi, la caccia alle balene è vietata nella maggior parte dei Paesi del mondo mentre viene praticata per “motivi di ricerca” (che, come vedremo, non è così significativa in campo scientifico) o di sussistenza delle piccole comunità indigene, anche se non mancano i cacciatori di frodo, che continuano l’attività nonostante i provvedimenti internazionali, e le balene catturate accidentalmente durante la pesca di altri animali.

A incentivare le politiche di salvaguardia dei grandi cetacei, il fatto che questi siano considerati charismatic species, specie carismatiche, cioè capaci di catalizzare l’attenzione e l’affetto del grande pubblico, e quindi di riscontrare un certo successo nelle campagne di sostegno e protezione che le riguardano. Nell’immaginario collettivo, infatti, balene, balenottere, capodogli, beluga, sono considerati i giganti degli oceani, mansueti, a volte giocherelloni, a volte addirittura affini a noi in alcuni comportamenti con i cuccioli o con gli altri esemplari. A partire dagli anni Settanta, ad esempio, il canto delle balene (cioè i suoni prodotti dai cetacei per l’ecolocalizzazione o il corteggiamento) ha suscitato molto interesse sia negli studiosi che nei non addetti ai lavori, tanto che esistono vere e proprie compilation di questi richiami sotto forma di CD o playlist online.

Specie ancora minacciate

In effetti, nonostante azioni vincenti come le campagne dell’associazione Save the Whales, i cetacei sono ancora gravemente minacciati, sia per fattori direttamente correlati con il cambiamento climatico (l’aumento della temperatura degli oceani, la fragilità della catena alimentare, la competizione per il cibo), sia per motivazioni connesse alle attività dell’uomo: l’inquinamento acustico (che può causare interferenze nella comunicazione tra individui, se non addirittura danni ai loro apparati uditivi), l’entanglement nelle reti da pesca, gli urti con le grandi navi, l’inquinamento del mare. Solo nel 2015, quasi trecentocinquanta esemplari di Balenoptera borealis, specie già minacciata, furono trovati spiaggiati sulle coste cilene a causa di un’alga tossica favorita dalle alte temperature del mare.

Tra gli attori più coinvolti nello sterminio delle balene oggi ci sono la Norvegia, l’Islanda e soprattutto il Giappone, che già a partire dall’entrata in vigore della moratoria dell’IWC nel 1986 sfruttano una scappatoia della convenzione per continuare a cacciare le balene. È permessa, infatti, l’uccisione di esemplari di balene per scopi di “ricerca scientifica”. Si abbattono i cetacei per determinarne l’età, lo status riproduttivo, le abitudini alimentari e gli effetti del cambiamento climatico: informazioni essenziali per monitorare le popolazioni di balene e che, a loro dire, non sono ricavabili in modo efficiente da una semplice biopsia effettuata sull’animale vivo. La carne delle balene abbattute viene poi venduta a fini alimentari, alimentando ulteriormente questa industria e contemporaneamente finanziando la ricerca stessa. 

Non fosse che, secondo uno studio della Simon Fraser University (British Columbia, Canada), il valore scientifico della caccia per la ricerca è inferiore a quello della ricerca sui cetacei tradizionale (che non implichi, cioè, l’abbattimento di esemplari): solo una minima parte delle pubblicazioni scientifiche redatte tra il 1986 e il 2013 proviene da studi giapponesi, norvegesi o islandesi condotti attraverso l’uccisione di balene, contro una maggioranza di studi internazionali, più largamente diffusi e citati, che non impiegano metodi violenti.

Nonostante il consumo di carne di balena sia orami ai minimi storici in Giappone, lo scorso anno la Kyodo Senpaku, azienda che caccia e lavora carne di balena, ha deciso di inaugurare a Tokyo 5 macchinette automatiche che distribuiscono carne di balena in varie forme; contano di aprirne almeno 100 entro i prossimi 5 anni in tutto il Paese

Nonostante questo, la caccia alle balene non ha tregua, specialmente in Giappone. La comunità internazionale e le associazioni animaliste hanno lungamente protestato contro l’espediente adottato dal Paese e nel 2014 la Corte internazionale di Giustizia ha dichiarato illegale il suo programma scientifico confermando che si trattava di una copertura per la caccia commerciale. Il Giappone, allora, ha avviato un nuovo programma con un nome diverso e ha ridotto la quota di capi cacciati di circa due terzi, continuando di fatto a cacciare cetacei senza grosse ripercussioni. Non solo: nel 2019, il Giappone è arrivato addirittura ad abbandonare l’International Whaling Commission, riarrogandosi il diritto di cacciare le balene per scopi commerciali. Alle baleniere ora è consentito cacciare solo nelle acque territoriali giapponesi e nella zona economica del Giappone, mentre sono cessate le spedizioni annuali nelle coste antartiche, che erano causa di tensioni con l’Australia. È permesso l’abbattimento di massimo 200 capi tra balenottere minori, balenottere di Eden e balenottere boreali.

Ancora non è chiaro, in realtà, quale sia il vero valore economico-commerciale della caccia alle balene, soprattutto in Giappone e in Islanda. Il consumo di carne di balena è in rapido declino in entrambi i Paesi: in Islanda, la carne di balena viene servita quasi esclusivamente ai turisti, venduta per piatto tipico, mentre in Giappone è il governo a finanziare il settore, che altrimenti non sarebbe autosufficiente.

Il ruolo nella lotta al cambiamento climatico

Un nuovo, importante fulcro su cui potrebbero incentrarsi le future politiche di salvaguardia dei cetacei è il loro ruolo chiave nel delicato equilibrio del clima sul nostro Pianeta. È solo negli ultimi due anni che si è scoperto, infatti, che le balene sono cruciali nella lotta al cambiamento climatico. Di recente, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha stimato un valore economico preciso per le balene, alla luce non solo del giro d’affari per le industrie che ruotano attorno ai cetacei in modo diretto (pesca e whale watching), ma anche in base all’impatto di questi animali sull’ambiente.

Come ha spiegato Michael Fishbach, direttore esecutivo della ONG The Great Whale Conservancy e collaboratore del FMI nella ricerca del 2019 Nature’s Solution to Climate Change, le balene sono essenziali per la cattura e il sequestro di carbonio (il cosiddetto CCS, Carbon Capture and Storage), in primis perché il loro corpo ne contiene parecchio, e viene depositato sul fondo dell’oceano con la morte degli individui, e poi perché sono strettamente connesse a un altro prezioso anello della catena trofica: il fitoplancton.

Il fitoplancton cattura, all’anno, circa 9 gigatonnellate di carbonio quindi 37 miliardi di diossido di carbonio, cioè 4 volte la CO2 catturata dalla foresta amazzonica. Sono gli oceani, sottolinea Fishbach, a essere il vero polmone del Pianeta: il 50% dell’ossigeno che respiriamo proviene dalle masse d’acqua oceaniche – un respiro ogni due. E questo non dovrebbe sorprenderci, visto che la maggior parte della superficie terrestre è coperta dall’acqua.

Balene e fitoplancton, inoltre, sono correlati attraverso la cosiddetta whale pump. A seconda di stagioni e correnti, nell’oceano si verifica l’upwelling, ovvero il movimento di risalita delle acque profonde, ricche di nutrienti, in superficie, la zona eufotica. Le balene sono attratte dalla presenza di nutrienti e consumano enormi quantità di krill (zooplancton e copepodi, piccoli crostacei), producendo scarti contenenti fosforo, ferro e azoto: questi tre elementi sono cruciali per la crescita del fitoplancton di cui zooplancton e copepodi si nutrono, e quindi si innesca un circolo virtuoso finché le risalite si sviluppano altrove e le balene si dirigono verso quella nuova destinazione.

I risvolti economici

In questo ragionamento, prettamente ecologico, il Fondo Monetario Internazionale ha introdotto considerazioni di tipo economico. Ralph Chami è assistente direttore dell’Istituto per lo Sviluppo di Capacità del FMI e si è occupato delle stime economiche circa l’impatto delle balene sull’ambiente. Per Chami, “le balene ci permettono di sopravvivere in modo diretto. Raccontare la loro storia significa raccontare la nostra storia”, ed è grazie a questa chiave di lettura che si può fare leva sulle grandi industrie e le policy makers affinché la protezione delle balene diventi anche una loro priorità.

Il Fondo Monetario Internazionale si è basato sui prezzi del carbonio per nazione individuati dalla Banca Mondiale per calcolare il valore delle balene: facendo una media di quelle stime, considerando l’aspettativa di vita media di una balena (circa 60 anni), e applicando i dovuti arrotondamenti, si è giunti a un costo totale di 2 milioni di dollari a balena, contro i 24mila dollari di valore della carne. Secondo Chami, se gli attori coinvolti nel consumo di carne di balena conoscessero queste cifre, la domanda di carne diminuirebbe.

E sarebbe coinvolto tutto il mondo: come nota Fishbach, i cetacei visitano diverse nazioni, se non continenti, periodicamente (ad esempio, gli esemplari dell’Atlantico meridionale toccano sia le acque dell’Africa occidentale sia quelle del Sud America orientale): in questo modo, le balene potrebbero essere considerate bene pubblico internazionale, e nessuna nazione dovrebbe poter ucciderne una senza il consenso degli altri Paesi.

“Ma c’è un problema – spiega Chami – i singoli individui non riescono a internalizzare il valore delle cose per la collettività”. Ecco perché, parlando al grande pubblico, è importante puntare sull’informazione, sull’importanza delle balene per gli esseri umani e, rivolgendosi ai politici, bisogna focalizzarsi sul valore economico. Eventuali sussidi o fondi dovrebbero essere ben targettizzati, spingendo ad esempio i Paesi più ricchi a sostenere quelli che non hanno altrettanti mezzi economici”.

“E con le grandi industrie – continua Fishbach – bisogna parlare la loro lingua: i soldi. Bisogna trovare alternative, ad esempio, alle tipiche rotte delle grandi navi, anziché lottare contro di loro per partito preso. Ma dobbiamo agire subito”.

Il valore intrinseco dei grandi cetacei

L’equilibrio tra gli organismi che abitano il mare è estremamente fragile, e anche lo studio del FMI presenta alcune criticità: secondo alcuni scienziati dell’Università del Vermont, non è ancora del tutto chiaro l’effettivo impatto delle balene sulle “fioriture” di fitoplancton, e sono necessari ulteriori studi per determinarlo. Non solo, ma le popolazioni di balene sono estremamente ridotte rispetto ai decenni precedenti (4-5 milioni di esemplari, contro gli attuali 1,3 milioni), e anche se riuscissimo a riportarle alle condizioni originali, il loro contributo al sequestro di carbonio sarebbe comunque irrisorio rispetto alla quantità di CO2 emessa dalle attività umane annualmente.

Del resto, non bisogna dimenticare che, come per tutte le specie viventi (e in particolare quelle a rischio per causa nostra), c’è un valore intrinseco alla salvaguardia della biodiversità e alla vita degli esseri viventi. Non c’è dubbio, tuttavia, che il contributo delle balene alla lotta contro il cambiamento climatico e il coinvolgimento delle grandi industrie nella loro tutela potrebbe essere una nuova, fondamentale chiave per la salvaguardia di questo bene del Pianeta.

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