“Io, veterinario vegetariano negli allevamenti, vorrei cambiare le cose”
Massimo Vacchetta, veterinario che lavora negli allevamenti di bovini, ha raggiunto una nuova sensibilità e ora ha una “missione”
Dopo esserci occupati del Centro di Recupero Ricci “La Ninna“, di cui è fondatore e nel quale presta soccorso a ricci in difficoltà, abbiamo voluto rivolgere qualche domanda al dottor Massimo Vacchetta, medico veterinario vegetariano che lavora negli allevamenti e che cerca, con il proprio lavoro, di “cambiare le cose dall’interno”. Scopriamo che cosa ci ha raccontato.
In cosa consiste e dove svolge il suo lavoro?
Sono un veterinario e mi sono sempre occupato di bovini – adulti e non – da carne. Per lo più ho svolto e svolgo le mie mansioni in piccoli allevamenti intensivi della mia zona, ma ho avuto a che fare anche con realtà più grandi. Il mio compito è quello di seguire gli allevamenti dal punto di vista strettamente medico, mettendo in atto le cure e le profilassi necessarie per il bestiame.
Quale realtà ha incontrato negli allevamenti ?
Parto col dire che faccio questo mestiere da 23 anni e trovo che, rispetto al passato, la situazione nell’ultimo periodo sia migliorata. Per quanto ho potuto constatare, le leggi comunitarie sul benessere animale sono in linea di massima rispettate. Dico “in linea di massima” perché ci sono realtà che non hanno recepito queste direttive, ma si tratta per lo più di allevamenti medi e piccoli. Sono soprattutto gli adeguamenti strutturali a non venire attuati: modificare la struttura degli allevamenti, ampliandone gli spazi, è molto costoso e non tutti gli allevatori desiderano spendere denaro per questo. I grandi e grandissimi allevamenti, invece, tendenzialmente rispettano queste leggi, probabilmente per paura delle sanzioni.
Per quanto riguarda il benessere animale, cosa ha riscontrato?
Il discorso è complesso: i bovini sono animali che per loro natura devono vivere allo stato brado, liberi di muoversi e di brucare erba, ma questo va contro le esigenze economiche degli allevatori; ciò comporta che siano tenuti in spazi piccolissimi, sovraffollati, le cui condizioni igieniche sono spesso precarie. Tutto questo ha una ripercussione forte sul loro benessere, soprattutto per quanto riguarda la gestione dello stress. Detto questo non si può quindi parlare di “benessere” propriamente inteso anche se, come già accennavo, rispetto al passato ho notato mediamente un certo miglioramento. Per quanto ho potuto vedere, ci sono aziende dove la situazione è davvero pessima e, di contro, aziende in cui il benessere animale è abbastanza rispettato.
Le è mai capitato di denunciare allevamenti in cui le condizioni degli animali violavano chiaramente la legge?
Sì, mi è capitato anche se tendenzialmente prima di far intervenire le autorità cerco sempre di parlare con gli allevatori, dando loro consigli dal punto di vista prettamente economico e utilitaristico. Fare leva sull’aspetto economico a volte è sufficiente perché gli allevatori migliorino le condizioni di detenzione degli animali senza il ricorso alle autorità. Con persone che fanno questo mestiere, infatti, non è quasi mai possibile fare un discorso di tipo etico, dal momento che per loro gli animali sono unicamente una fonte di reddito. A volte, invece, questo non è bastato e ho dovuto richiedere l’intervento delle autorità competenti.
Lei è vegetariano, ma non non lo è da sempre. Cosa l’ha spinta verso questa scelta?
Fino ai 40 anni sono stato un onnivoro convinto; pur lavorando con i bovini, non ero in grado di “fare la connessione” e di capire che la carne che mangiavo proveniva dagli stessi animali che curavo con amore. Alcune vicissitudini personali mi hanno poi portato verso una dieta più salutistica, ma ancora senza tenere presente il risvolto etico del consumo di carne. Ciò che davvero ha fatto scattare in me la molla del cambiamento è stato lavorare, per un periodo, in un macello di polli: lì ho iniziato davvero a considerare la sofferenza che si nasconde dietro la produzione di carne, scioccato da ciò che ho visto. I polli vengono uccisi in maniera brutale, arrivano al macello stipati in gabbie minuscole per poi finire in una vera e propria “catena di montaggio” e terminare la propria breve vita tra grandi sofferenze. Anche l’incontro con la Ninna – il piccolo riccio orfano che ha ispirato la nascita del mio Centro di Recupero Ricci – ha contribuito al mio cambiamento: ho smesso di vedere ogni cosa dal mio punto di vista per immedesimarmi nella sofferenza degli altri. Da lì ho deciso che non avrei più voluto carne nel mio piatto.
Questo suo cambiamento l’ha portata a lavorare in modo diverso con gli animali?
Anche quando ero onnivoro ho sempre lavorato con grande passione e ho sempre fatto molta fatica a mandare al macello gli animali considerati ormai incurabili, anche se si tratta della prassi negli allevamenti. Oggi faccio davvero di tutto per evitarlo, presto le mie cure anche gratuitamente pur di salvare un animale considerato dagli allevatori ormai “inservibile”, anche contro la logica economica dell’allevamento. Oggi mi considero un uomo più compassionevole e mi rendo conto di vedere, nel mio lavoro, cose che prima non notavo.
Ci racconta un episodio significativo di questo?
Due anni fa fui chiamato da un allevatore per curare una mucca con una polmonite molto grave, che la faceva soffrire enormemente: respirava a fatica e le logiche del sistema mi suggerivano di mandarla al macello. Durante la visita mi resi conto che l’animale aveva le mammelle turgide e ciò poteva significare solo che aveva partorito da poco. Quando compresi che se avessi mandato al macello quella mucca un vitellino di pochi giorni sarebbe rimasto orfano, ho tentato il tutto per tutto: ho intrapreso una vera e propria “terapia d’urto” sulla mucca, sperando che funzionasse. E così è stato: la mucca si è salvata e, per quanto fossi consapevole che prima o poi la mucca sarebbe comunque stata macellata, ero felice di averle concesso un po’ di tempo in più con il suo vitellino.
Potremmo dire che la sua sia una “missione”, insomma?
Certamente, nel mio piccolo sto cercando di cambiare le cose: magari un altro, al mio posto, avrebbe detto “basta” al lavoro negli allevamenti dopo aver capito cosa si nasconde dietro a queste realtà. Io, invece, cerco di conciliare il mio nuovo sentire con questo lavoro, “combattendo in prima linea”. Cerco di portare il mio punto di vista negli allevamenti anche se mi rendo conto che si tratti quasi di un’utopia: gli allevatori portano avanti tradizioni secolari difficili da sradicare, viste come assolutamente “normali”. Io cerco quotidianamente di ribaltare il punto di vista di chi incontro, di far capire cosa sarebbe stare “nei panni dell’altro”: anche se non posso sperare di far diventare vegetariani gli allevatori o che questi, di punto in bianco, chiudano i loro allevamenti, mi auguro almeno di portarli a un maggiore livello di empatia con i propri animali e di migliorarne, così, le condizioni di vita negli allevamenti.
Quale consiglio dà a chi voglia limitare il proprio contributo alla sofferenza animale?
Il passo più importante è sicuramente diventare vegetariani o vegani, ma si tratta di una scelta assolutamente personale e che non può essere imposta. Ancora prima di questo, il mio consiglio è quindi di limitare gli sprechi: sappiamo bene come ogni giorno venga buttata una grande quantità di cibo che, a ben pensarci, è costituita anche da vite sprecate, da animali uccisi inutilmente per poi finire dritti nella spazzatura. Basterebbe prendere coscienza di questo per risparmiare tantissime di vite innocenti.
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