Pandemie, rapporto HSI: transizione ad alimentazione vegetale per difenderci da nuovi virus

Un nuovo report di Humane Society torna sulle connessioni tra allevamenti intensivi e diffusione di virus pandemici sottolineando l’importanza dell’alimentazione a base vegetale come strumento di prevenzione

“Il virus che causerà la prossima pandemia potrebbe essere già in circolo fra gli animali allevati”. Un nuovo rapporto, questa volta realizzato da Humane Society International, torna sul rapporto tra allevamento e rischio pandemico sottolineando l’importanza di una transizione globale verso un’alimentazione a base vegetale come strumento concreto di prevenzione da future pandemie.

Il report

Nel rapporto “Allevamento, zoonosi e pandemie”, pubblicato pochi giorni fa, l’organizzazione internazionale che si occupa di protezione degli animali fa il punto sulle interconnessioni individuate finora a livello scientifico tra la diffusione di nuovi patogeni virali e l’allevamento individuando, nelle specifico, cinque possibili rischi associati a quest’ultimo (ne parliamo anche noi nel nostro ebook “La connessione. Virus, sfruttamento degli animali e alimentazione” che puoi trovare qui).

In ambito agricolo, a creare le condizioni ideali per lo sviluppo, la mutazione e la diffusione di agenti patogeni, rimarca Humane Society International, è in primo luogo l’interazione con la fauna selvatica, in modo particolare in habitat precedentemente incontaminati: l’aumento della richiesta di carne a livello globale, e la conseguente espansione degli allevamenti verso aree un tempo selvagge, favorisce infatti l’avvicinamento tra specie selvatiche e addomesticate incentivando gli “spillover” di virus (ovvero il passaggio dei virus da una specie all’altra, proprio come quello che ha causato Covid-19).

Inoltre, tenere enormi quantità di animali in ambienti chiusi e in condizioni di fortissimo stress come quelle proprie dei grandi allevamenti intensivi, così come la loro concentrazione in determinate aree geografiche, costituisce un ulteriore elemento di amplificazione virale. Poi, ci sono la movimentazione e il commercio globale di animali vivi, che mettono ulteriormente sotto stress gli animali aumentando il rischio che si ammalino, oltre a quello connesso al “trasporto” degli eventuali virus da una parte all’altra del mondo. Infine, individua Humane Society International, ci sono i mercati di animali vivi che, come le fiere agricole e le aste, rappresentano centri in cui animali provenienti da luoghi diversi vengono portati in prossimità del pubblico e dove i virus possono proliferare (una storia che, proprio con Covid-19, abbiamo imparato a conoscere bene).

I numeri

Lo studio, che analizza anche il rischio agricolo per virus specifici come ebola, coronavirus e influenza aviaria, torna poi sui numeri dell’allevamento globale. Stando a dati Fao, riporta Humane Society International, nel 2018 sono state quasi 3 miliardi le anatre macellate in tutto il mondo, più di 7 miliardi le galline, quasi 1,5 miliardi i maiali e più di 68 miliardi i polli da carne. Numeri in costante crescita soprattutto per quanto sta accadendo in Paesi come la Cina nei quali lo sviluppo economico sta determinando un aumento del consumo di carne. E che non sono destinati a calare: sempre secondo la Fao, si prospetta che il consumo globale di carne e prodotti caseari aumenterà rispettivamente di 40 milioni e di 20 milioni di tonnellate entro il 2028.

La soluzione

E’ proprio alla luce di questi numeri, e dei rischi che Covid-19 ha reso concreti ed evidenti, che le “comuni soluzioni avanzate per cercare di superare la minaccia di malattie derivante dall’espansione e intensificazione dell’allevamento animale, come una maggiore sorveglianza sugli allevamenti e sui mercati, il miglioramento della biosicurezza, più formazione per gli allevatori sono solo temporanee e non affrontano la radice del problema”, spiega il rapporto. “Un’opzione molto più efficace sarebbe quella di limitare la nostra dipendenza dagli alimenti di origine animale. Tale cambiamento – è l’analisi – diminuirebbe la densità della popolazione animale e le reti di trasporto che spostano animali (e malattie) in nuove regioni. Potrebbe anche ridurre la densità e il numero di animali confinati nei rimanenti sistemi intensivi”. Insomma, ricorda ancora una volta Humane Society International, “un’alternativa praticabile per soddisfare la richiesta crescente di proteine potrebbe essere quella di frenare l’espansione della produzione di carne, puntando su opzioni a base vegetale“, che vanno dalla semplice sostituzione nell’alimentazione delle proteine animali con quelle vegetali (qui trovi qualche consiglio per iniziare) alle possibilità offerte dalle sperimentazioni in corso sulla carne coltivata.

Guardando al futuro

Quello che bisognerebbe fare, si legge ancora nel report (se avessimo imparato la lezione, aggiungiamo noi) sarebbe “concentrarsi con maggiore enfasi e urgenza sulla prevenzione di pandemie future riformando radicalmente il nostro sistema alimentare per ridurre la dipendenza dalle proteine animali“. La letteratura scientifica, già ben prima di Covid-19, parlava dei rischi connessi a una “malattia X” causata da un patogeno al momento sconosciuto. Come spiega bene anche questo ennesimo studio sul tema, l’allevamento intensivo costituisce un forte fattore di rischio: “Gli animali in sistemi intensivi giocano un ruolo cruciale come ospiti intermedi e portatori di virus animali, che normalmente avrebbero pochi o nessun contatto con ospiti alternativi e non si troverebbero a stretto contatto con le persone. Anche se il SARS-CoV-2 sarebbe apparentemente emerso da un mercato di animali selvatici, la prossima ondata – conclude Human Society – potrebbe essere altrettanto facilmente associata all’allevamento intensivo“.

 

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