Frutta e verdura “brutta”: quanta ne sprechiamo e quanto ci costa

La corrispondenza tra “bello” e “buono” è oggetto di disquisizioni da 2.500 anni, ma quali sono i canoni estetici che guidano il mercato (e le nostre scelte) in materia di frutta e verdura? E cosa succede quando si scontrano con gli effetti del cambiamento climatico?

di Eleonora Ballatori

Quando si tratta di frutta e verdura “brutta”, i consumatori hanno un limite di tolleranza del 40%, superato il quale non sono più disponibili all’acquisto. Ovvero: in un sacchetto di dieci carote, solo quattro possono apparire imperfette perché il cliente sia ancora disposto a comprarlo. A stabilirlo è l’Ohio State University in una ricerca del 2021, da cui emerge che si tende a percepire come “scadente” un prodotto la cui dimensione, forma o colore si discosti dagli standard estetici prevalenti nella grande distribuzione organizzata (GDO). Tale diffidenza è dovuta, da un lato, a una conoscenza sempre più limitata della produzione alimentare, che nelle economie moderne avviene spesso a grande distanza dal suo consumo. Dall’altro lato, chi potrebbe contribuire all’educazione del consumatore favorendo un riavvicinamento consapevole alla filiera, sceglie di non farlo: i rivenditori sono più che propensi a escludere dall’assortimento quegli alimenti che non hanno un aspetto standard.

Il corto circuito delle responsabilità

Nell’ambito del rapporto Siamo alla frutta pubblicato nel 2021, l’associazione ambientalista Terra! ha fatto questa domanda alle principali insegne distributive italiane: “Sareste disponibili a mettere a scaffale frutta non sempre perfetta esteticamente (di calibro piccolo, con ammaccature da grandine, ecc.), ma ottima dal punto di vista organolettico?”. Il 57% ha risposto di no perché “il cliente non la comprerebbe”, il 29% non sa o non risponde e solo il 14% ha confermato di farlo già.

Si crea così un circolo vizioso in cui i rivenditori sostengono di agire per assecondare i gusti del cittadino-consumatore e rimettono il problema in capo ai soli produttori, che dovrebbero trovare altri canali – altrettanto remunerativi – per la merce di seconda o terza scelta; mentre i produttori, dal canto loro, insistono sulla responsabilità della grande distribuzione nell’aver educato i clienti ad accettare solo la perfezione. Questo sistema, sottolineano inoltre, ha altre conseguenze dannose: i prodotti non conformi agli standard della GDO vengono o scartati o ceduti all’industria di trasformazione a un prezzo inferiore, che copre a malapena i costi di produzione e garantisce la sopravvivenza solo di quelle aziende agricole che riescono a fornire un’alta percentuale di prodotti di prima scelta.

“Sani, leali e mercantili”

Fino a quindici anni fa l’Unione Europea, nel tentativo di uniformare e regolare il mercato, adottava norme molto rigide riguardo dimensioni, forma e consistenza di quasi quaranta prodotti ortofrutticoli destinati al consumo fresco. Per esempio, cetrioli e carote dovevano avere una curvatura massima di 10 millimetri, pena l’esclusione. Con il Regolamento 543 del 2011, successivamente modificato dal Reg. 428/2019, la legislazione si è ammorbidita, “limitando” il proprio intervento a dieci prodotti che però, da soli, costituiscono il 75% del valore commerciale degli scambi europei: mele, agrumi, kiwi, lattughe, pesche, pere, fragole, peperoni, uva da tavola e pomodori. La premessa alle oltre 160 pagine di norme è il proposito di commercializzare prodotti “sani, leali e mercantili”. Ovvero quelli certamente buoni da mangiare, puliti e privi di parassiti, ma anche impeccabili dal punto di vista estetico.

Prendendo in esame solo alcuni dei requisiti per entrare nelle Categorie “Extra” e “I” (cui appartiene quasi il 90% dell’ortofrutta venduta dalla GDO) troviamo, ad esempio, che le mele rosse devono avere “colorazione adeguata” per almeno tre quarti della superficie e che eventuali “ammaccature lievi” sono ammesse, ma per un massimo di 1 cm quadrato, sul totale; i kiwi devono essere “ben formati: sono esclusi i frutti doppi o multipli”; le pesche possono presentare “lievi segni di pressione” su una superficie non superiore a 1 cm quadrato , così come le fragole ammettono una “piccola zona bianca” la cui estensione non deve però superare un decimo della superficie totale. Infine troviamo che gli acini dell’uva da tavola devono essere “distribuiti uniformemente sul graspo”, mentre i pomodori costoluti sono ritenuti conformi solo se presentano “protuberanze non eccessive”. Tutti i prodotti, inoltre, devono rientrare nei calibri minimi previsti.

Cibo perso, cibo sprecato

Nel rapporto Reducing food loss: What grocery retailers and manufacturers can do, pubblicato da McKinsey nel 2022, si legge che ogni anno va persa o sprecata una quantità di beni alimentari stimabile tra il 33 e il 40% della produzione totale. In tutto, due miliardi di tonnellate di cibo che spariscono lungo la filiera: il 16% a causa delle perdite che si verificano al momento del raccolto (food losses), mentre il 14% per colpa dello spreco in fase di distribuzione e consumo (food waste). Secondo l’UNECE, la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, è come se ogni anno venissero riempiti 33 milioni di camion di cibo da buttare.

Analizzando il mercato globale dei pomodori, il prodotto in assoluto più soggetto a food loss con 50-75 milioni di tonnellate perse ogni anno, McKinsey stima così le cause della perdita: un terzo è legata al surplus di produzione, un altro terzo è costituito da cibo commestibile ma non conforme alle specifiche del cliente e il restante terzo è a causa di danni che rendono il cibo non commestibile. Questo significa che due terzi della perdita sono prodotti buoni da mangiare, che potrebbero essere reindirizzati al consumo umano.

La natura non è una fabbrica

“Vogliono frutti perfetti, grandi, tutti uguali, come se fossero usciti dalla fabbrica. Ma la natura non è perfetta”, dice Gianni Amidei, presidente di OI Pera (Organizzazione Interprofessionale della Pera) intervistato da Terra!. Nonostante l’agricoltura sia il secondo settore per emissioni di gas serra in Europa, allo stesso tempo è quello che patisce di più le conseguenze del cambiamento climatico. Solo nel 2020 l’Italia ha vissuto circa 1400 tra precipitazioni intense, fenomeni siccitosi, ondate di caldo e inondazioni: il risultato sono raccolti di calibro inferiore e più frequenti difetti superficiali. In Emilia-Romagna, principale polo produttivo europeo di pere, negli ultimi quindici anni sono spariti 6mila ettari sui 28mila complessivi. Non solo perché grandinate o gelate tardive hanno ripetutamente azzerato la produzione, ma anche perché i frutti, perfetti dal punto di vista organolettico ma resi irregolari dai capricci del clima in mutamento, non vengono accettati dai supermercati. I dati aggiornati per l’Italia, diffusi dall’osservatorio Waste Watcher nello studio Il caso Italia 2023 si allineano a quelli globali: solo nel tragitto dal campo ai rivenditori, nel 2022 sono andate perse 4,2 milioni di tonnellate di cibo, di cui il 26% nel comparto agricolo, il 28% nell’industria di trasformazione e l’8% nella distribuzione.

Chi fa fronte comune vince: il caso Melinda

Per erodere lo strapotere della GDO nel dettare prezzi e regole, oltre che per riguadagnare posizioni nel mercato dell’export, la filiera italiana dovrebbe superare la disaggregazione che la caratterizza e imparare a fare sistema. Un caso virtuoso in questo senso è quello del consorzio Melinda, che dal 1989 gestisce l’intera commercializzazione dei suoi affiliati (il 99% dei produttori trentini), condividendo tecniche all’avanguardia e offrendo una forza contrattuale senza pari nel rapporto con le insegne. Questo significa non solo non essere obbligati a “svendere” il proprio prodotto, ma anche avere l’autorità necessaria per scalfire i canoni estetici imperanti. Melinda ci è riuscita creando il marchio Melasì con cui, grazie a un’efficace campagna di marketing, ha portato la grande distribuzione (e i consumatori) ad accettare anche le mele di seconda o terza categoria danneggiate dalla grandine o di più piccolo calibro.

Chi dovrebbe fare il primo passo?

Al di là delle singole iniziative, tuttavia, la soluzione più efficace sarebbe un’azione congiunta a livello nazionale, in cui la GDO dovrebbe approfittare della propria posizione dominante sul mercato per sensibilizzare i consumatori e ridare valore economico ai prodotti di seconda scelta, mentre le istituzioni dovrebbero anticipare l’UE nel porre un freno legislativo all’ossessione per l’estetica prima che, unita alle conseguenze del cambiamento climatico, mandi alla deriva l’intero comparto.

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