Difendiamo il veganismo dalla cultura del plant-based
Perché è importante cercare una via di mezzo fra lo sfracellarsi e il dimenticarsi completamente chi si è e il perché lo si fa partendo dalle decisioni di un ristorante milanese
“Il termine vegano allontanava le persone, in Italia c’è molta preclusione. Allora abbiamo iniziato a proporre anche pesce da pesca sostenibile ed evitiamo di usare il termine vegano nel menù, anche se l’approccio, ad esempio nei dessert, nei formaggi, resta quello”. A parlare è Federica Grasso, General Manager del ristorante Soulgreen, in un’intervista rilasciata sul magazine online Mixer Planet.
La spinosa questione dei nomi
Sul nostro mensile digitale, Vegolosi MAG, ne abbiamo parlato spesso: nel nostro paese è in corso un processo di annacquamento del veganismo che si è andato a mescolare, come in una sapiente ricetta, a termini come “sostenibile”, “green” e, il più gettonato e incompreso di tutti, “plant based”. La questione legata ai nomi sembra sempre suscitare un po’ di pizzicore al naso come a dire che “non sono cose importanti”. Del resto anche il bardo lasciava in eredità al mondo l’idea che un nome è ben poca cosa.
Il problema è che, parafrasandolo con un po’ di vergogna, “Quello che noi chiamiamo vegano, con qualsiasi altro nome, non sarebbe altrettanto valido”. La continua lotta contro questo termine, le falsità, gli accostamenti con “estremo”, “pericoloso per la salute”, “vegetariano, sì… ma vegano”, “mangio plant-based” hanno offuscato come in una tempesta di sabbia il messaggio e il punto attorno alla scelta e alla filosofia vegana, facendola diventare un impiccio di marketing, un guaio da risolvere per ristoranti, backery, delivery, bar, pub, grandi marchi, multinazionali e blogger/influencer di vario tipo.
“Preferirei di no”
Nel romanzo “Bartelby lo scrivano” l’impiegato modello di Melville si oppone alle nuove richieste del suo superiore con questa frase: “Preferirei di no”. Ed è quello che con lentezza ma ineluttabilità è successo negli ultimi dieci anni nella comunità vegan in Italia. Evitare di usare, ma con gentilezza, il termine vegano per timore che allontanasse il pubblico, i lettori, i consumatori, i follower, dimenticando completamente l’obiettivo. O meglio: se l’obbiettivo è quello di fare business (e non c’è niente di male, sia chiaro) allora quella di Federica Grasso, come di altri ristoratori, chef, giornali, blogger è una scelta comprensibile seppur non condivisibile. Se, invece, vogliamo credere che chi compra, legge, ascolta, mangia abbia un cervello suo con il quale potersi fare un’idea sulla realtà, evitando di trattare tutti come bambini un po’ sciocchi che devono essere avvicinati con l’inganno, possiamo agire in modo diverso. L’abbiamo fatto anche noi: per un periodo il sotto testata del nostro giornale è stato “Magazine di cultura e cucina 100% vegetale”. In tanti ce lo avevano consigliato e noi, con l’idea che potesse essere un buon compromesso per parlare di veganismo anche a chi proprio non ne voleva sentir parlare, abbiamo provato. Poi abbiamo cambiato idea.
Preferiremmo di sì, invece
Grasso continua: “Sul plant based c’è decisamente più apertura, non è visto come una ‘setta’ chiusa e che tende a escludere”. E come potrebbe non essere così, quando “plant based” significa mangiare prevalentemente a base vegetale (ma non solo) e scegliendo prodotti il più possibile non lavorati eccessivamente e che siano sostenibili. No, non significa “vegano”. Ed ecco quindi che anche il tonno di Soul Green, dato che viene pescato in modo sostenibile (anche se non c’è niente di sostenibile nell’ammazzare un essere vivente per servirlo a tavola) diventa parte di una filosofia “plant based”, green, eco-chic con una spruzzata di verde, toni del beige e del giallo ocra. Questo ristorante è solo un esempio: le scelte che hanno fatto gli competono e le motivazioni altrettanto, si tratta solo della punta di un iceberg enorme.
Parafrasando Bartelby invece, noi preferiremmo di sì, che chi ha il potere di farlo perché serve pasti a molte persone, perché comunica con una community, perché fa cultura alimentare (e i ristoranti fanno ben parte di quest’ultima categoria) potessero dimostrare che il veganismo è qualcosa di ampiamente sensato, possibile e giusto senza accontentare o seguire in una discesa verso la semplificazione continua “il pubblico” che in realtà ha bisogno solo di capire meglio.
Non è per niente facile
Quando Federica Grasso spiega che “in Italia c’è molta preclusione” ha perfettamente ragione. Il problema è che tirarsi indietro cercando di non turbare lo status quo, alimenta un circolo vizioso senza fine il cui risultato è proprio quella stessa preclusione. Non è per niente facile, sia chiaro. Non si tratta nemmeno di fare per forza i Don Chisciotte a tutti i costi, spesso mettendo in pericolo posti di lavoro e intere attività (noi lo sappiamo molto bene), ma il nostro appello e la riflessione che portiamo al dibattito è questa: chi del vegan ha fatto un perno della propria scelta anche comunicativa, sfruttandone a pieno il potenziale incredibile, non dovrebbe avere paura di continuare ad usare questa parola che in sé custodisce un portato politico e filosofico che non va dimenticato sacrificandolo sull’altare del “raggiungere più persone”.
Certo che è importante che più persone provino cosa significa mangiare vegano, ma chi cucina e comunica vegan deve avere il coraggio di dire che il cibo è un aspetto, magnifico, di una riflessione più ampia e importantissima. Le persone devono essere rese partecipi di quanto grande potrebbe essere il loro ruolo se solo smettessero di avere quella preclusione che, di fatto, è basata sul nulla. I circoli viziosi alimentati dalle esigenze economiche, dalle politiche di finanziamento dei media e dal capitalismo (è una parola che suona vetusta, ma è quello che stiamo parlando) possono essere spezzati se anche solo un anello si stacca, se se ne staccano tanti è ancora meglio.