Aviaria: l’epidemia animale durante la pandemia umana
Sebbene non ci siano rischi diretti per noi esseri umani, il nostro problematico rapporto con l’ambiente risulta un fattore determinante nell’epidemia, proprio come nel caso del Coronavirus.
Giappone, Corea del Sud, India, Russia, Israele e alcune zone dell’Europa: queste le aree in cui, a partire dallo scorso novembre, sono stati individuati ceppi di influenza aviaria. Questi ultimi, tra cui il patogeno H5N1, hanno gravi conseguenze negli uccelli contagiati: rigonfiamento della testa, difficoltà respiratorie, morte entro 48 ore.
Non solo, ma quando sono individuati esemplari infetti, tutti gli “uccelli domestici” entro il raggio di 1 km vengono abbattuti, a prescindere dalla loro positività o meno all’aviaria. Dopo l’allarme aviaria del 2003, infatti, costato miliardi di dollari al settore primario globale, gli allevamenti di pollame vogliono contenere i danni: all’epoca, infatti, milioni di polli dovettero essere abbattuti, e il commercio di carne di pollo subì un enorme calo a causa delle preoccupazioni per la salute umana.
Sebbene non sia chiaro in che modo i casi di oggi siano correlati, diverse nazioni hanno individuato la causa della diffusione dell’aviaria negli uccelli selvatici. In India, ad esempio, dopo il ritrovamento di anatre, oche e corvi selvatici infetti, è in programma l’abbattimento di massa del pollame degli allevamenti; il Regno Unito, invece, ha dato la colpa agli uccelli migratori europei per aver portato il ceppo H5N8 oltremanica, che ha causato la morte di una quindicina di cigni selvatici e l’abbattimento di migliaia tra polli, anatre e tacchini in allevamento. Gli animali allevati hanno subìto un periodo di lockdown preventivo da dicembre allo scorso marzo, secondo le disposizioni del governo britannico, per evitare contatti con la fauna selvatica e quindi possibili contagi.
La causa della diffusione
Secondo alcuni esperti della rivista scientifica Science, è vero che la fauna selvatica contribuisce alla diffusione dell’aviaria, ma l’influenza può essere portata anche attraverso il trasporto di pollame, la movimentazione di materiali, strumenti e prodotti di scarto contagiati, e anche il commercio di uccelli esotici. L’avifauna selvatica può essere contagiata se ‘atterra’ in un allevamento infetto; il mangime sparso, l’acqua negli abbeveratoi, la strumentazione e il guano utilizzato come fertilizzante possono costituire ulteriori fonti di contaminazione per questi animali.
A conti fatti, gli uccelli selvatici sono più vittime che carnefici: “Gli uccelli selvatici sono visti spesso come vettori malvagi”, spiega al Guardian la dottoressa Ruth Cromie, ricercatrice britannica. “In realtà sono vittime di un virus che originariamente si è diffuso a partire dal pollame. L’avifauna selvatica viene usata come capro espiatorio per mascherare lo scarso rispetto delle norme di biosicurezza, e il trasporto di massa di polli in tutto il mondo”.
Le terribili condizioni degli allevamenti hanno contribuito alle mutazioni dell’aviaria: da un virus relativamente innocuo a un problema molto più grande. Secondo la ricercatrice Justine Butler, “La minaccia deriva dagli allevamenti intensivi, che sono l’incubatore perfetto per le mutazioni dei virus: i polli vengono tenuti in stabilimenti piccoli, affollati e anti-igienici, spesso completamente al chiuso e con pochissima, se non zero, luce naturale. Questo aspetto è importante, in quanto i raggi ultra-violetti sono in grado di danneggiare i virus”.
Un rischio per la salute umana?
Sempre secondo il governo britannico, aviaria e SARS-CoV-2 non sono correlati. Ciononostante, non bisogna sottovalutare l’eventuale rischio di contagio per gli esseri umani. L’aumento del numero di allevamenti intensivi di pollame contribuisce alla possibilità di infezione degli umani. Le trasmissioni del virus dagli uccelli all’uomo sono in realtà molto rare, ma negli ultimi 15 anni sono aumentate proprio a causa del crescente numero di allevamenti intensivi e della loro vicinanza alle comunità.
In un report commissionato da Open Cages nel 2020, si sottolinea come gli scarti biologici provenienti dagli allevamenti (escrementi, resti di cibo, carcasse, fluidi) sono una potenziale fonte di rischio per gli addetti degli allevamenti sia negli stabilimenti, sia durante il trasporto e la macellazione.
In realtà i contagi umani di aviaria dal 2003 sono relativamente bassi (800 persone in tutto il mondo si sono infettate di H5N1), ma il tasso di mortalità in questi casi sfiora il 60%. Non si esclude che quello stesso ceppo possa variare e diventare più trasmissibile, destando preoccupazione per ulteriori pandemie.
Il problema delle zoonosi
Da tempo gli esperti rivolgono l’attenzione agli allevamenti intensivi e alla minaccia di malattie zoonotiche (in cui i virus si trasmettono da animali a umani a causa del contatto ravvicinato). In un paper del 2013 si legge che l’espansione degli allevamenti di bestiame, soprattutto in prossimità degli habitat incontaminati, ha facilitato lo spillover dei patogeni dalla fauna selvatica agli animali da allevamento e viceversa, aumentando la probabilità che il bestiame diventi amplificatore di patogeni trasmissibili all’essere umano.
Anche l’antibiotico-resistenza è un problema da non sottovalutare: utilizzati per impedire il diffondersi di malattie e per aumentare il tasso di crescita degli animali allevati, gli antibiotici sono regolati da norme in diversi stati, ma molti stabilimenti ne fanno tuttora un uso spropositato.
“È il momento di considerare il fatto che il consumo di carne non solo sta mettendo a repentaglio la nostra salute e l’ambiente“, conclude Justine Butler, “ma rischia di provocare nuove pandemie. È ora di chiudere gli allevamenti intensivi prima che questi finiscano noi”.