Alimentazione e clima: perché il passaggio alle diete vegetali è compito nostro
L’ultimo studio del John Hopkins Center for a Livable Future evidenzia quanto sia complessa la relazione tra modelli alimentari e relativi impatti ambientali e come l’accelerazione verso l’alimentazione a base vegetale in risposta alla crisi climatica sia una responsabilità in capo soprattutto a noi, che viviamo nei Paesi più ricchi
Esiste un modello alimentare capace di dare una risposta univoca alle sfide poste dal cambiamento climatico e, insieme, dalla necessità di garantire a livello globale l’accesso a un’alimentazione sana? Davvero questo modello coincide sempre con l’alimentazione a base vegetale? Sono le domande alle quali tenta di dare risposta “Country-specific dietary shifts to mitigate climate and water crises”, l’ultimo studio realizzato dal John Hopkins Center for a Livable Future. La ricerca ha preso in esame 9 diverse tipologie di dieta a base prevalentemente vegetale, in linea con i più aggiornati criteri per un’alimentazione sana, da quelle caratterizzate da una parziale riduzione del consumo di carne rossa passando per le latto-ovo-vegetariane fino all’alimentazione vegana in senso stretto, e ne ha valutato i diversi impatti in termini climatici in 140 diversi Paesi del mondo. Ne è emerso un quadro estremamente vario che porta a riassumere la risposta alle domande sopra in un complesso “dipende” e sposta la responsabilità delle scelte alimentari, in chiave di impatto ambientale, soprattutto sui Paesi più ricchi, ai quali è suggerita “un’accelerazione nell’adattamento alle diete vegetali”.
Malnutrizione e impatti ambientali: un equilibrio complesso
“Non c’è una soluzione univoca, valida per tutti, alle crisi climatiche e nutrizionali”, si legge nello studio. Per esempio, “raggiungere una dieta adeguata e sana nella maggior parte dei Paesi a basso e medio reddito richiederà un sostanziale aumento delle emissioni di gas serra e dell’uso di acqua”. Nei Paesi più poveri, la risposta alla malnutrizione non può che passare, cioè, attraverso diete caratterizzate da una maggior impronta ambientale, ovvero basate anche sul consumo di prodotti di origine animale.
A mostrare la complessità della correlazione tra i diversi fattori in gioco nell’individuazione di un modello alimentare sostenibile per tutti, esemplifica la ricerca americana, è il caso dei prodotti lattiero-caseari. Nel 95% dei Paesi presi in esame, le diete che includono prodotti di origine animale come carne o pesce per un pasto al giorno sono risultate meno intensive, in termini di emissioni di gas serra, rispetto alle diete latto-ovo vegetariane, quelle cioè che non contemplano il consumo di carne e pesce ma di formaggio. “I nostri dati indicano che in realtà è il consumo di prodotti lattiero-caseari che spiega gran parte delle differenze nelle impronte di gas serra attraverso le diete. Allo stesso tempo, però, i nutrizionisti riconoscono l’importante ruolo che i prodotti lattiero-caseari possono avere nella prevenzione dell’arresto della crescita, che è un componente dell’Indice del capitale umano della Banca mondiale ”, spiega il co-autore dello studio, Martin Bloem, direttore del Johns Hopkins Center for a Livable Future. Seppur molto impattanti sotto il profilo climatico, cioè, i prodotti caseari rappresentano un alimento fondamentale nei Paesi più poveri nella lotta alla malnutrizione.
La provenienza degli alimenti
Quanto sia non scontato il rapporto tra cibo, sistemi di produzione alimentare e relativi impatti ambientali è anche quella che lo studio definisce una “scoperta chiave”, che ha mostrato “che una dieta in cui le proteine animali provengono prevalentemente da animali a bassa catena alimentare, come piccoli pesci e molluschi, ha un impatto ambientale quasi altrettanto basso di una dieta vegana”.
Ciò può avvenire perché, nel definire l’impatto ambientale di un alimento, vegetale o animale che sia, entrano in gioco numerosi fattori, come la provenienza, le necessità commerciali che ne impongono l’importazione o l’esportazione in altri Paesi e, più in generale, il sistema di produzione, ad esempio quando richiede massicce opere di deforestazione per far posto ai pascoli e alla produzione di mangime o di interventi per rendere disponibile acqua dolce. “Il Paese di origine di un alimento può avere enormi conseguenze sul clima”, si legge nello studio. “Ad esempio, una libbra di carne bovina prodotta in Paraguay contribuisce per circa 17 volte in più in termini di gas serra rispetto a una libbra di carne bovina prodotta in Danimarca. Spesso questa disparità è dovuta alla deforestazione necessaria per lasciare posto ai pascoli”.
Quale soluzione?
A livello globale, prosegue lo studio, i modesti spostamenti in avanti verso diete a basso contenuto di carne rossa sono stati compensati, e in parte annullati, dall’incremento dell’apporto proteico e calorico tra le popolazioni denutrite, con conseguente aumento netto di emissioni di gas serra e di impronte idriche. E, allora, che fare? “Con oltre 800 milioni di persone alle prese con problemi di malnutrizione ogni giorno, l’impatto climatico non può essere l’unico parametro per decidere cosa le persone devono mangiare – sottolineano gli autori dello studio. Molti Paesi a basso reddito hanno bisogno di aumentare l’impatto ambientale della propria alimentazione per rispondere ai problemi di malnutrizione. Per questo, sono i Paesi più ricchi a dover affrontare cambiamenti più ambiziosi delle loro diete per stoppare il cambiamento climatico”. Per contrastare gli impatti climatici legati alla produzione alimentare e affrontare su scala globale i problemi di malnutrizione, è la raccomandazione dello studio americano, è dunque necessario che “i Paesi ad alto reddito accelerino l’adattamento alle diete vegetali”.
Una soluzione univoca, quindi, non c’è, è l’analisi finale dello studio, ma sta ad ogni Paese modellare le proprie politiche ambientali e le scelte culturali in fatto di alimentazione sulla base del contesto specifico. “Sarebbe bello avere una soluzione semplice per affrontare i problemi posti dall’impatto della produzione alimentare; tuttavia, con questioni complesse e globali come l’alimentazione, i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle acque dolci e lo sviluppo economico, ciò non è possibile “, afferma Bloem. “Ci saranno sempre dei compromessi. L’impatto ambientale da solo non può essere una guida per definire ciò che le persone è bene che mangino. I Paesi devono considerare la totalità delle esigenze nutrizionali, dell’accesso e delle preferenze culturali dei loro abitanti. La buona notizia è che questa ricerca può far parte della soluzione, dato che ora offre ai responsabili politici uno strumento per sviluppare strategie appropriate a livello nazionale, comprese le linee guida dietetiche, che aiutano a raggiungere molteplici obiettivi. ”