Al fuoco! Il rischio incendi in Italia, tra cause e prevenzione
Con l’arrivo dell’estate crescono i timori per gli incendi, che in Italia si verificano in misura sempre maggiore. Ecco perché ciò avviene e, sopratutto, cosa bisognerebbe fare per evitarlo
Inizia l’estate e cresce l’allarme per il rischio incendi, che ormai da molti anni vede l’Italia tra i primi Paesi europei colpiti dal fenomeno insieme a Spagna e Portogallo. Lo confermano i numeri: dal 1970 sono stati in totale più di 400mila i roghi che hanno interessato superfici boscate e non boscate del Belpaese, circa 8.500 all’anno, interessando 2,2 milioni di ettari di superficie forestale. Tra gli anni peggiori, il 2021 quando nel nostro Paese – ha calcolato lo European Forest Fire Information System, piattaforma sviluppata dal Joint Research Center dell’Unione Europea – si è verificato un numero di incendi quattro volte superiore a quello dei roghi verificatisi tra il 2008 e il 2020. Quell’anno, dal 1 gennaio al 19 agosto sono stati 631 gli incendi superiori ai 30 ettari, che hanno colpito zone rurali in Italia coinvolgendo oltre 148mila ettari di terreno: un’area grande grossomodo come le città di Venezia, Genova, Torino, L’Aquila e Napoli messe insieme. Ma cosa c’è dietro questi numeri?
Non solo piromani: il ruolo del clima
Per capirlo, è bene partire dalla cause all’origine del fenomeno. In Italia, come nel resto del bacino del Mediterraneo, i boschi bruciano per motivi diversi, concause correlate, che spesso si sommano tra loro, concordano gli studiosi della materia. “Il primo fattore predisponente è dato dalle condizioni meteorologiche e climatiche: aridità, alte temperature, bassa umidità, forte ventosità, alta frequenza di eventi estremi, quali le ondate di calore, sono fattori in presenza dei quali un incendio può facilmente acquisire vigore e interessare vaste superfici”, spiegano Davide Pettenella e Giulia Corradini del Dipartimento Territorio e Sistemi agro-forestali dell’Università di Padova in uno studio pubblicato nel 2018 dal titolo Il bosco brucia: un’occasione per riflettere sulla politica forestale in Italia. I due ricercatori evidenziano come frequenza e intensità di questi fenomeni siano destinati a crescere: “Gli scenari mostrano che l’eccezionalità climatica sarà sempre più la norma e che la regione del Mediterraneo sarà più esposta a fenomeni di riscaldamento di altre regioni del mondo. Ciò – si legge nello studio – comporterà una riduzione delle precipitazioni in primavera e ondate di caldo in estate, incendi quindi potenzialmente più rapidi, intensi e di larghe dimensioni, e addirittura anticipati all’inizio della primavera”. Non solo: il clima sempre più caldo sta rendendo alberi e piante più esposti ad attacchi di parassiti e funghi e, dunque, più vulnerabili agli incendi. Senza considerare l’effetto dei prolungati periodi di siccità, che rendono il materiale vegetale più secco e più infiammabile e, di conseguenza, gli incendi più distruttivi.
Poi, ci sono gli atti umani, più o meno volontari, dovuti a negligenza, incuria, imperizia, che vanno dalla sigaretta buttata a terra, al gesto di piromani veri e propri ai roghi appiccati da operai stagionali in cerca di lavoro nell’antincendio fino agli atti di criminalità organizzata. E, se è vero come ha stimato Legambiente nel 2017 che nelle quattro Regioni del Sud con tradizionale presenza mafiosa si è concentrato quell’anno più del 58% dei roghi, è anche altrettanto vero – ci ricordano Pettenella e Corradini – che “è importante evitare di criminalizzare e diffondere la visione dell’interesse sistematico della criminalità organizzata negli incendi che – sottolineano nello studio – sono più che altro un problema di cultura civica dei beni comuni, di coscienza e di educazione al rispetto dei beni pubblici e naturali”.
Più boschi, più fuochi
C’è, infine, un elemento di contesto molto più generale, che agisce a monte di qualsiasi causa scatenante il singolo rogo. Ed è quello sul quale si concentra maggiormente chi studia gli incendi, il loro propagarsi e le azioni che dovrebbero essere messe in campo per prevenirli. Come ci spiega bene Stefano Mazzoleni, professore di Botanica ambientale e applicata, esperto di Ecologia del fuoco e incendi boschivi, dell’Università Federico II di Napoli: “A parità di cause, sono le condizioni di propagazione degli incendi a essere peggiorate negli ultimi anni perché è cambiato l’uso tradizionale del suolo. Dal dopoguerra a oggi abbiamo assistito a un progressivo abbandono dei terreni agricoli che ha comportato un aumento della copertura forestale, in alcune zone anche del 30%”. Una “ricolonizzazione naturale” che, però, non è stata gestita: abbandonati a loro stessi, questi nuovi boschi e sottoboschi bruciano di più, e più in fretta, banalmente perché c’è più materiale infiammabile e perché il fuoco non trova ostacoli sulla sua strada.
Come cammina il fuoco
Il meccanismo ce lo spiega ancora Mazzoleni: “Sin dal tempo degli antichi romani, i pastori bruciavano pascoli e campi agricoli per rinnovarli e tenevano pulito il sottobosco con il cosiddetto ‘fuoco di pulizia’. È per questo che il nostro paesaggio è oggi fatto a mosaico, costituito cioè da vegetazione naturale e vegetazione antropica. Ma cosa succede a un paesaggio gestito per secoli con fuoco controllato che a un certo punto viene abbondato? Pascoli e campi scompaiono, la vegetazione ricomincia a crescere e vengono meno quei ‘buchi’ nella copertura forestale che erano tali anche in presenza dei roghi. Un tempo, un incendio che camminava nella vegetazione si fermava in un campo coltivato non trovando più di che alimentarsi. Oggi, quel campo è stato ricoperto da arbusti e piante spinose, così in quel buco le fiamme passano e vanno a prendersi anche il bosco dall’altro lato”.
Fuochi incontrollati
Un altro dato da non tralasciare è quello che ci dice che il 70% degli incendi che si verificano nell’area mediterranea è dovuto a bruciature di residui vegetali e al desiderio di rendere più produttivi i pascoli. Sono quelli che un tempo erano i “fuochi controllati”, accesi da contadini e pastori per rigenerare i terreni, oggi rigidamente regolamentati per legge e puniti severamente. “Si tratta di fuochi che continuano a essere appiccati per le stesse ragioni, ma di nascosto perché di fatto illegali. Ciò – analizza Mazzoleni – fa sì che da controllati quei fuochi diventino incontrollati e, dunque, molto più pericolosi di quanto fossero in passato”.
Ed eccola, quindi, la miscela esplosiva (letteralmente, potremmo dire), la somma di tutti i fattori che abbiamo visto finora che, in una torrida giornata estiva in cui soffia forte lo scirocco può dare origine alle decine di incendi ai quali assistiamo ogni anno.
Un problema di scala
Ma cosa succede lì dove passano le fiamme? Per rispondere a questa domanda, va fatta una premessa: “Noi tendiamo a vedere il fuoco come un elemento di per sé negativo all’interno di un ecosistema, ma si tratta di un elemento presente nella storia evolutiva di tanti ecosistemi e funzionale al loro mantenimento in equilibrio“, specifica Danilo Russo, professore di Ecologia anche lui all’Università di Napoli. È il caso proprio della macchia mediterranea, un tipo di vegetazione resiliente e adattata al fuoco, capace dopo gli incendi di ricrescere da sola, ringiovanita e rinvigorita. “Il problema, semmai, è legato alla frequenza, all’intensità e alla scala. Con incendi di grandi dimensioni, insolitamente frequenti rispetto alla capacità che gli elementi della biodiversità hanno di adattarsi – analizza Russo – l’equilibrio si perde e l’incendio da positivo diventa fattore distruttivo“.
Molto dipende anche da cosa va a fuoco: “Non è corretto dire che la macchia mediterranea viene distrutta da un incendio. Essa brucia, e si rigenera – specifica Mazzoleni -. Se invece brucia una faggeta secolare, quella è una perdita da moltissimi punti di vista. Per questo vanno protetti dagli incendi gli ecosistemi meno resilienti, incapaci di recuperare”. Ma come?
Prevenire è meglio che curare
“Con interventi mirati di fuoco prescritto, che ricreino mosaico protettivo intorno ai boschi. In condizioni climatiche più calde come quelle attuali – prosegue Mazzoleni – la vegetazione può bruciare più facilmente per i motivi che abbiamo visto, ma in un paesaggio gestito a mosaico e con una logica antincendio preventiva fatta di fuochi controllati in inverno, fasce parafuoco, pulizia del sottobosco che riduce il materiale combustibile, non avremmo episodi drammatici”.
In Italia – ci spiegano gli esperti – lo sforzo è concentrato da sempre su ciò che serve quando ormai l’incendio è divampato: più mezzi e risorse per lo spegnimento e per il monitoraggio satellitare dei roghi e pene esemplari per chi appicca il fuoco. Ma “concentrare le risorse esclusivamente sulla lotta antincendio non è né efficace né efficiente – si legge nello studio di Pettenella e Corradini del 2018 -. Una risorsa abbandonata è una risorsa per la quale non viene riconosciuto un valore e che per questa ragione non viene monitorata e protetta. La prevenzione a costi minori è quella connessa alla rivitalizzazione dell’economia del settore: un bosco che produce valore (legname, biomassa, funghi, tartufi, castagne, ma anche servizi turistici, ricreativi, culturali) è un bosco che viene difeso e che difficilmente brucia”.
La natura sa cosa fare
E poi c’è il dopo. A seguito di roghi come quelli terribili divampati nelle ultime estati, se e come ha senso intervenire? Come spesso accada, la natura sembra sapere meglio di noi cosa è più opportuno fare. Molto, infatti, dipende dall’ecosistema coinvolto e ogni caso è a sé, ma il rimboschimento – che come l’antincendio è una grande business – “non è sempre la scelta migliore – spiega Mazzoleni -. Con incendi così grandi si possono creare gravi problemi di dissesto idrogeologico. In questi casi, si dovrebbe intervenire con azioni di messa in sicurezza del suolo per evitare che venga eroso e lasciare poi che le piante si rigenerino naturalmente. Perché se si va su quel terreno che è stato scoperto dall’incendio con azioni di reimpianto e rimboschimento il rischio è di innescare meccanismi di erosione ancora più accentuati e fare danni peggiori”.