Antispecismo, cosa significa?
Da dove nasce il termine “antispecismo”? Che cosa significa? Cosa lo differenzia dallo “specismo”? Facciamo chiarezza su un argomento attuale e controverso
«Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino […] all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Concetto tra i più barbari e nefasti, da cui procede tutta la immedicabile violenza umana, l’essere micidiale della storia, la cui meta sembra solo l’accrescimento di sé, tramite il possesso e la distruzione dell’altro da sé. […] Più uccidiamo e più siamo uccisi. Più degradiamo e più siamo degradati»
Anna Maria Ortese, Corpo celeste
INQUADRAMENTO STORICO
Il termine “specismo” compare per la prima volta nel 1970 in un opuscolo contro gli esperimenti sugli animali scritto dallo psicologo Richard D. Ryder. Nell’opuscolo Ryder sosteneva che il tentativo di ottenere benefici per la specie umana attraverso l’abuso di individui di altre specie è «semplicemente specismo e come tale si basa su ragioni morali egoistiche piuttosto che su ragioni razionali». Un anno più tardi, nel 1971, in un saggio egli paragona lo specismo al razzismo, giudicandole due identiche forme di pregiudizio: «(…) L’irrazionalità in entrambe le forme di pregiudizio è identica. Se viene accettato come moralmente sbagliato infliggere deliberatamente sofferenza a creature umane innocenti, è conseguentemente logico considerare anche sbagliato infliggere sofferenza a individui innocenti di altre specie».
Solo nel 1975 però questo termine verrà reso popolare da Peter Singer nel suo libro-manifesto del movimento animalista “Liberazione animale”. Secondo Singer, specismo è: «Un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie».
Sempre Singer ritiene lo specismo parte integrante di quella lunga serie di violazioni del principio di eguaglianza, che hanno nel razzismo e nel sessismo le loro espressioni intra-specifiche più note.
Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso. Singer
Molti anni più tardi, nel 2002, il sociologo David Nibert fa un passo più avanti, definendo lo specismo come «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali». In tal modo la responsabilità dell’oppressione animale viene spostata dal singolo individuo alle condizioni sociali (che influenzano il singolo individuo): nella definizione di Nibert lo specismo non è limitato al concetto di un semplice pregiudizio (un atteggiamento individuale), ma è identificato come un sistema di credenze socialmente condivise che permettono e rinforzano questo stesso pregiudizio contro esseri senzienti appartenenti a specie diverse da quella umana.
In generale i principi base del credo antispecista – si legge nel manifesto del Movimento Antispecista – sono:
– non uccidere, far soffrire o discriminare esseri senzienti
– non utilizzare risorse derivanti dallo sfruttamento di esseri senzienti
E il dovere di un sostenitore della tesi antispecista è: «impegnarsi nel quotidiano contro ogni tipo di ingiustizia e di prevaricazione nei confronti dei più deboli o svantaggiati, siano essi Umani o Animali. Le attenzioni verso gli Umani, verso l’ambiente e la Terra sono da considerarsi parte integrante della lotta per la liberazione degli Animali, e viceversa».
SPECISMO E ANTISPECISMO: CONFRONTO
Lo specismo è la centralità attribuita dalla specie umana a se stessa: è qualcosa in più dell’antropocentrismo, è una sorta di rivendicazione del diritto di disporre a piacimento dei corpi, delle vite, di individui appartenenti ad altre specie. Ciò in virtù della presupposta superiorità morale che nobilita gli esseri umani per via delle innegabili differenze biologiche e delle caratteristiche cognitive (l’anima, il linguaggio, l’autocoscienza…) che ci contraddistinguono dagli altri esseri viventi. Nella gran parte delle società umane contemporanee è considerato non riprovevole discriminare gli animali non umani anche se il modo in cui ciò accade e l’intensità o anche l’oggetto della discriminazione (la mucca, il cane, il maiale ad es.) variano di luogo in luogo e di stato in stato.
Lo specismo si può dividere in due tipologie:
Specismo naturale: è la naturale propensione che ogni specie possiede a preferire individui della propria specie rispetto a individui appartenenti ad altre specie. Questa preferenza può trasformarsi in protezione dei propri simili a scapito del dissimile. E’ una forma di “pregiudizio”.
Specismo innaturale: è il meccanismo di oppressione istituzionalizzato dalle società umane volto a perseguitare e uccidere gli animali non umani per ricerca, abbigliamento, divertimento e alimentazione. E’ una forma di “ideologia”.
La conseguenza inevitabile di un tale atteggiamento, quale che sia la convinzione di fondo, è lo sfruttamento. Gli umani sfruttano gli animali non umani durante tutta la loro vita, usandoli come risorse. Ciò avviene in molti modi: gli animali non umani vengono consumati come cibo, utilizzati per il vestiario, tormentati e uccisi per divertimento, usati per esperimenti, sfruttati per il lavoro. In una parola, sono schiavi.
L’antispecismo, al contrario, è una filosofia (ma anche un movimento sociale) che intende impostare su basi nuove le relazioni fra la specie umana e le altre specie animali: sostiene che la condizione animale, nel mondo attuale, è interna a una struttura di dominio che ha profonde radici storiche e culturali. Una struttura di dominio che opprime gli animali ma che è all’origine anche di diseguaglianze e forme di oppressione interne alla specie umana. L’antispecismo mette quindi in discussione la classica distinzione fra natura e cultura, fra umano e animale. Va detto che l’antispecismo è un pensiero ancora in formazione e assume diverse sfumature a seconda degli autori e dei gruppi di attivisti che si ispirano a questa visione.
Anche l’antispecismo si può dividere in due tipologie:
Antispecismo classico: è una forma di opposizione filosofica, politica e culturale all’oppressione animale. Coerentemente a questa visione, questi attivisti si pongono come obiettivo unico del movimento la fine dell’oppressione animale e sostengono che ogni attività intrapresa debba muoversi in questa direzione veros un’evoluzione socio-culturale antispecista.
Antispecismo politico: è una forma di attivismo basato sulla convinzione che solo una lotta congiunta che abbia come obiettivo la liberazione totale degli animali, umani compresi (una liberazione in questo caso intesa come liberazione da strutture sociali limitanti e/o da forme di oppressione effettiva quali il razzismo, il sessismo e lo specismo, e volta a destrutturare un meccanismo di oppressione comune), possa essere considerata la strada più promettente in grado di garantire un effettivo cambiamento. Il coinvolgimento attivo deve quindi salvaguardare sia i diritti dell’umano che dell’animale per avere successo.
L’ANTISPECISMO OGGI
In Italia, Leonardo Caffo propone un modo nuovo di fare antispecismo: il suo antispecismo “debole” deve essere insieme teoria e pratica di liberazione animale e si definisce per contrasto da ogni altro movimento di sovversione dell’ordine sociale esistente, proprio perché l’oggetto di tale opera di affrancamento non può difendersi da sé. Gli animali non umani non si possono opporre alle barbarie che subiscono ed è esattamente da essi che bisogna muovere un’autentica riflessione antispecista: «L’antispecista non deve, tuttavia, abusare della voce dell’animale senza nome di cui è testimone, ma è necessario che riesca a far emergere che la sua posizione non è “sua”; che non lotta per se stesso ma per gli altri, che rivendica per l’animale ciò che lui (forse) ha: il diritto a vivere, e a essere lasciato in pace».
L’obiettivo primario dell’antispecismo deve dunque essere quello di porre fine non solo ad ogni forma di violenza istituzionalizzata nei confronti della vita animale (si pensi a quello che avviene nei settori del vestiario, dell’alimentazione, della sperimentazione, dello spettacolo, della caccia “sportiva”) ma anche e prima di tutto all’idea di poter disporre degli animali non umani per pratiche tutt’altro che necessarie: abbandonare l’idea che essi siano cioè delle “cose”, concezione frutto di quel paradigma di sfruttamento millenario e dominio sul mondo animale da parte dell’uomo che è lo specismo.
Serena Porchera
Da macellaio a difensore degli animali: la conversione di Tom Regan