Acqua sempre più scarsa: ecco quanto e come incide quello che mangiamo
Di acqua ce ne è sempre meno ed è iniziata una vera e propria corsa per accaparrarsela: con Emanuele Bompan, autore del libro inchiesta “Water grabbing”, vi raccontiamo come sta cambiando a livello globale la geografia idrica e perché quello che decidiamo di mangiare può fare la differenza
Imparare a conoscere cosa esattamente abbiamo nel frigorifero, e agire di conseguenza. Passa in gran parte dalle scelte alimentari dei singoli la risposta al tema della disponibilità e della gestione della risorsa fondamentale per la vita, l’acqua. Un bene primario, oggi sempre più scarso. Lo documenta “Water grabbing. I conflitti nascosti per l’acqua nel XXI secolo”, il libro-inchiesta scritto a quattro mani da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli, edito da Edizioni Emi, che documenta i moltissimi casi di accaparramento di acqua in corso a livello globale, dal Montana al Bangladesh. Un viaggio intorno al mondo che, dati scientifici alla mano, racconta come stia cambiando intorno a noi la geografia dell’acqua e con quali conseguenze. Ne abbiamo parlato con il suo autore per capire quanto incide su questo scenario quello che mangiamo ogni giorno.
Water grabbing, un neologismo per la nuova geografia dell’acqua
“Con l’espressione water grabbing – spiega Emanuele Bompan – ci riferiamo ai tentativi di accaparramento a livello globale da parte di soggetti di potere, siano Stati o aziende private, di risorse idriche preziose, a proprio vantaggio e a scapito delle comunità locali o di intere nazioni, soprattutto di soggetti deboli la cui sussistenza si basa spesso proprio su quelle risorse. Con effetti devastanti. Tutto ciò, in un scenario idrico nel quale l’acqua sta diventando un bene sempre più scarso, non perché lo sia di per sé, ma perché sta cambiando la geografia dell’acqua”. Lo dicono i numeri: la disponibilità pro capite di acqua a livello globale è passata dai 9mila metri cubi degli anni Novanta, ai 7800 dei primi anni Duemila. Nel 2020, documenta l’inchiesta, scenderà ulteriormente a poco più di 5mila metri cubi. Meno acqua a persona, dunque, soprattutto nei Paesi più poveri, a fronte di consumi in continua crescita.
Il cambiamento climatico
Tra le cause di questa “crisi sistemica dell’acqua” ci sono l’aumento della popolazione mondiale e il conseguente aumento di richiesta idrica, ma soprattutto i cambiamenti climatici: “Stiamo assistendo a una trasformazione accelerata dei principali pattern climatici, con conseguenze determinanti sui cicli dell’acqua e sulla sua disponibilità. Parliamo di fenomeni come l’aumento della siccità, che comporta un maggior prelievo idrico per l’agricoltura, per esempio. O dello scioglimento dei ghiacci, dall’Himalaya alle Alpi, che determina il venir meno dell’apporto costante di grosse riserve di acqua non più disponibili, e ancora dell’aumento del livello del mare, con la conseguente salinizzazione dell’acqua di falda. Lo vediamo nel verificarsi sempre più frequente di fenomeni meteorologici estremi – osserva Bompan – la piovosità violenta non permette la raccolta sotterranea dell’acqua e quella diventa tutta acqua persa”.
La “sete dell’agricoltura e dell’allevamento”
Poi ci sono le “cause antropiche”, c’è l’uomo e l’uso che fa della risorsa acqua. A partire proprio dalla tavola: “Agricoltura e allevamento incidono per circa il 75% sul prelievo idrico mondiale con differenze tra gli Stati industrializzati, dove il prelievo è ridotto, e i Paesi meno industrializzati, dove il prelievo è maggiore e raggiunge anche il 98%. Per questo motivo, per diventare resilienti e adattarci a questa nuova geografia dell’acqua, uno degli elementi chiave è la trasformazione dei modelli agricoli e di allevamento così come li conosciamo oggi”. E la riduzione dei consumi di carne (circa 4650 i litri di acqua necessari per produrre una bistecca di manzo):
“Ridurre le proteine animali – evidenzia Bompan – è sicuramente il primo passo per abbassare l’impronta idrica collegata ai nostri consumi così come a fare la differenza è la provenienza di quello che mangiamo: preferire cibi prodotti vicino a noi significa ridurre, quantomeno, lo spreco di risorse dovuto al trasporto”.
L’acqua “virtuale”
Se pochi dubbi esistono sul fatto che le diete a base vegetale possano essere considerate le “meno idrovore”, più difficile è infatti essere pienamente consapevoli dei reali impatti idrici di tutti gli alimenti che consumiamo, compresi quelli di origine vegetale. “Anche quando si parla di alimentazione vegetariana e vegana – osserva Bompan – a volte non si è consapevoli che, seppur preferire cibi vegetali non ha effetti sulle specie animali, può comportare comunque impatti importanti dal punto di vista delle risorse naturali, a partire da quelle idriche”. Il tema della cosiddetta “acqua virtuale”, ovvero della quantità di acqua necessaria per produrre un alimento, interessa infatti tutti i tipi di cibi. Per avere una lettura precisa di questa informazione, si legge nel libro-inchiesta, il dato va strettamente correlato alla reale disponibilità di acqua del luogo nel quale il singolo alimento viene prodotto e alle risorse impiegate per commercializzarlo. Da questo punto di vista, tra i cibi a maggiore impronta idrica figura in primo luogo la carne, ma anche piante da olio, cereali e caffè risultano avere un’impronta idrica elevata quando vengono trasportati, come spesso avviene, da una parte all’altra del mondo.
Il caso “quinoa” e i superfood
Anche dal punto di vista idrico, dunque, qualunque sia il tipo di alimentazione seguita, fondamentale rimane la scelta consapevole di ciò che si acquista e, soprattutto, della sua provenienza. Un esempio? La quinoa: “L’aumento esponenziale della domanda di questo cereale ha comportato squilibri fortissimi in Paesi produttori come la Bolivia e l’Equador: l’acqua è stata sottratta agli usi e alle attività tradizionali, si sono accelerati i processi di desertificazione locali provocando un grande impoverimento della popolazione”. È il caso anche della soia: “Se quella che consumiamo arriva dal Brasile, dove è prodotta e lavorata in aree sottoposte a stress idrico, l’impatto idrico è molto alto, non ancora paragonabile a quello della carne, forse, ma sicuramente a quello di alimenti come i formaggi. Come sempre – ribadisce Bompan -, il problema sono i trend e le mode, come quelle che hanno interessato negli ultimi anni i cosiddetti ‘superfood’, e la mancanza di consapevolezza intorno a ciò che decidiamo di mangiare: se consumiamo certi alimenti perché ci aiutano a tenere sotto controllo il colesterolo, ma poi ammazzano gli agricoltori della Bolivia, è chiaro che i conti non tornano”.
Lo spreco alimentare
Sul banco degli imputati del water grabbing c’è poi lo spreco alimentare, con un terzo del cibo prodotto a livello mondiale buttato e non consumato, insieme all’acqua necessaria per realizzarlo (circa 250 kilometri cubi, le stime riportate da Bompan e Iannelli, pari all’equivalente del flusso annuale del fiume Volga). Un caso su tutti quello del latte vaccino: in Europa se ne buttano 300 milioni di litri. Per produrne uno solo, servono 255 litri di acqua: quanta se ne sprechi inutilmente è facile dedurlo. “Lo spreco alimentare incide per circa il 30% su quello d’acqua, così come i sovraconsumi: sprechiamo acqua ed energia perché mangiamo più del necessario, per poi voler smaltire il peso in più facendo diete e allenamenti forsennati. Non ha senso”.
Gli effetti del water grabbing
Meno acqua, dunque, e una vera e propria corsa, ormai in atto, per accaparrarsi quella che c’è. Ma con quali effetti? “I dati e le storie raccolte nel libro – spiega Bompan – ci raccontano che aumentano sempre più i conflitti e le tensioni geopolitiche legate all’acqua, quelle nelle quali, cioè, l’acqua ha un ruolo determinante. È il caso della Siria, per esempio, dove la grave siccità che ha colpito il Paese dal 2007 è stata un acceleratore della crisi sociale ed economica che ha portato poi alla guerra. O dell’aumento delle tensioni tra India e Pakistan intorno al Gange. O del lago Ciad, dove proprio la scarsezza di acqua ha contribuito alla diffusione del movimento terrorista di Boko Haram, che è riuscito a trasformare in terroristi gli agricoltori rimasti senza lavoro a causa della siccità”. Non a caso, tra gli indici che ci dicono come viviamo a livello globale, quello sull’acqua continua a peggiorare: “Siamo più istruiti e meno poveri, ma c’è sempre più gente che ha sete”.
E in Italia?
Molte sono le storie di accaparramento dell’acqua anche nel nostro Paese che, dice Bompan, raccontano, per esempio, di gravi episodi di inquinamento ambientale, come nel caso dell’estrazione di idrocarburi in Basilicata o della contaminazione delle acque di falda in Veneto da pfas (ovvero le sostanze perfluoroalchiliche usate in campo industriale). Ma nel nostro Paese, il tema è anche quello del rapporto dei cittadini con l’acqua del rubinetto:
“Siamo il secondo Paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia. Compriamo un bene che già ci spetterebbe, che le aziende dell’acqua pagano a cifre irrisorie e che noi paghiamo invece mille volte tanto. Una sorta di ‘autoaccaparramento’: è un dato agghiacciante e imbarazzante”.
Cosa fare?
C’è, allora, se non una soluzione, quantomeno una strada percorribile per provare a ritrovare un equilibrio tra disponibilità di risorse idriche, accesso all’acqua e sicurezza alimentare? “Sì – risponde Bompan – e passa dall’affrontare con urgenza la questione climatica così come quella di un riconoscimento più integrato ed esteso da parte degli Stati del diritto all’acqua. Infine, l’alimentazione. I cittadini possono e devono chiedere che la politica e le istituzioni si occupino del clima e della disponibilità di acqua, ma la cosa più semplice che possono fare – conclude – è ridurre in prima persona lo spreco di cibo, sapere e capire quello che hanno nel frigorifero e scegliere di conseguenza”.