Massimo Filippi, liberazione animale: “Evangelizzare non serve, parlarne sì”
La filosofia aiuta a creare dialogo e dibattito, un elemento fondamentale, secondo Filippi, per continuare a viaggiare verso la liberazione animale
La filosofia appare sempre un po’ “lontana” dalla nostra vita quotidiana, ma in verità non è così. Riflettere, ponendo le basi di quelle che sono le nostre credenze, anche sull’alimentazione e le sue tradizioni, non passa mai di moda e ora più che mail il ruolo dei filosofi è davvero importante. Abbiamo raggiunto Massimo Filippi, filosofo che da anni si occupa della questione animale da un punto di vista filosofico e politico in occasione dell’incontro organizzato da Essere Animali che si terrà a Bologna il 6 maggio presso la Sala Consiliare Vinka Kitarovic, in Piazza G. Spadolini 7 e di cui Vegolosi.it e media partner. Filippi è membro della redazione di “Liberazioni. Rivista di critica antispecista“, socio fondatore dell’associazione “Oltre la Specie” e autore di moltissimi volumi sul tema, fra i quali vi segnaliamo “L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri edito da Ombre corte.
Filippi, viviamo in un Paese dove più della metà delle persone non legge nemmeno un libro all’anno: vede una connessione fra l’ignoranza e il nostro rapporto con il cibo e la sua origine animale?
Ha perfettamente ragione: In Italia si legge poco e male ed è probabile che questo possa in qualche modo spiegare perché le tematiche antispeciste siano così poco diffuse e comprese. Tuttavia, credo che non basti quella che lei chiama “ignoranza” per rendere conto della scarsa consapevolezza collettiva circa la questione animale. In effetti ci sono Paesi dove si legge di più, ma non mi pare che lì gli animali ricevano un trattamento migliore o che il movimento antispecista sia più influente a livello sociale. Penso che altri due fattori siano più rilevanti. Il primo: la rimozione degli animali. Viviamo in una società in cui, da millenni, lo specismo è la cornice dominante di riferimento culturale e materiale, una società che non parla di animali (il non detto) o che ne parla solo in termini strumentali (il mal detto). In altre parole, non si tratta (solo) di ignoranza, ma di qualcosa di più profondo: del resto, non ci sono solo i libri, ma un’infinita quantità di materiale, anche sulla rete, che denuncia la condizione degli animali, condizione che, come sostiene Jacques Derrida, sarebbe stata inimmaginabile perfino per persone vissute anche solo poche generazioni fa. Insomma, si vede solo quel che si vuole vedere o che si è (messi) in grado di vedere. Il secondo: la debolezza intellettuale e politica dell’animalismo che, forse, in Italia ha raggiunto livelli francamente preoccupanti. Pensi, per esempio, all’isolazionismo morale del movimento animalista che contribuisce non poco ad allontanarlo, e a farlo allontanare, da altri movimenti che si battono per un cambiamento sociale radicale. Oppure pensi al ricorso ad argomenti che poco o nulla hanno a che fare con la sofferenza e la messa a morte degli animali, aspetto indicativo del fatto poco incoraggiante che la maggioranza di chi si “oppone” allo specismo non considera la denuncia del dolore animale sufficiente, o sufficientemente forte, per esprimere il proprio dissenso.
Secondo la sua opinione, per essere realmente fautori di un cambiamento a favore del benessere animale, dobbiamo imparare a sentirci uguali o molto diversi dagli animali?
Innanzitutto, non parlerei di “benessere animale”, ma di “liberazione animale”. Il che, ovviamente, complica le cose, visto che la liberazione è decisamente qualcosa di molto più complesso da ottenere rispetto a un qualche miglioramento, più o meno sostanziale, delle attuali condizioni di sfruttamento intensivo a cui miliardi di non umani sono sottoposti. E, per rispondere alla sua domanda, penso che la formazione di un reale movimento di liberazione animale richieda che ci si svincoli dalla dialettica tra identità e differenza per muoversi in direzione del comune. In parole povere, noi siamo altri animali e, come tali, siamo in parte uguali e in parte differenti rispetto alle infinite moltitudini di non umani (che non dovrebbero mai essere raggruppate sotto il termine “l’Animale”, uno dei più violenti – se non il più violento – dei singolari collettivi che così spesso usiamo senza pensare al loro portato distruttivo). Quello che è certo è che condividiamo alcuni aspetti essenziali con il resto del mondo animale, quella che definirei, a partire dalla riflessione di Roberto Esposito, la faglia di vita transpersonale. Tale faglia è caratterizzata dalla finitudine, dalla vulnerabilità e dal desiderio gioioso, che attraversano tutti i corpi sensuali. I corpi sensuali sono da un lato mortali e fragili e dall’altro, quando possono, cercano di rendersi inoperosi, di smarcarsi dagli imperativi (ri)produttivi imposti dall’attuale sistema sociale. Tutti i corpi sensuali muoiono, soffrono e gioiscono, ma ognuno a modo suo. Questo è il comune che non annega le differenze, ma che neppure si fissa in identità.
Che legame esiste fra la violenza istituzionalizzata sugli umani e quella sugli animali?
Credo che fra la violenza istituzionalizzata sugli umani e quella sugli animali esista un legame molto stretto e profondo, un legame intimo, come la storia ci insegna: innumerevoli schiere di umani sono (state) “animalizzate” per poter poi essere discriminate, marginalizzate o, addirittura, eliminate. Suonerà banale, ma ce ne dimentichiamo spesso e volentieri: noi siamo corpi animali vulnerabili che offrono al potere e al dominio gli stessi punti di presa di quelli degli altri animali. L’indissolubilità dei processi di liberazione dei corpi non è, allora, il risultato della meschina ricerca di alleanze fittizie o del persistere di un sottaciuto antropocentrismo che fa rientrare dalla finestra ciò che aveva fatto uscire dalla porta, ma una presa d’atto risolutamente materialista. Questo punto è talmente centrale che non sarà mai enfatizzato abbastanza: la questione animale non è estranea alle questioni umane – come crede chi la derubrica a preoccupazione borghese – ed è sempre più necessario, alla luce della moltiplicazione distraente dei discorsi intorno agli animali, oggi tanto di moda, marcare la distanza tra un antispecismo maturo e l’animalismo mainstream che non solo pretende di escludere gli umani dall’interesse del movimento di liberazione animale, ma che addirittura accusa di cripto-antropocentrismo chi sostiene l’inestricabilità delle condizioni di potere/dominio e delle lotte di liberazione. Un’ultima considerazione: affermare che la violenza istituzionalizzata sugli umani e quella sugli animali siano intimamente connesse non corrisponde a sostenere che siano identiche. Anche senza considerare che esistono (e sono esistite) svariate forme di violenza istituzionalizzata sia sugli umani che sugli animali, vanno comunque sottolineate le innegabili differenze culturali, politiche, sociali, tecniche, giuridiche ed economiche tra i fenomeni in esame. Detto questo, però, non va neppure ignorato che ogni forma di violenza istituzionalizzata è caratterizzata da un comune – e comune, come detto, non significa identico – meccanismo ideologico e operativo: la trasformazione industriale, sterilizzata e burocratizzata di singolarità viventi in esemplari di specie perennemente sostituibili e smembrabili; la trasformazione del vivo in morto.
Nel suo ultimo libro, L’invenzione della specie, ha utilizzato il termine “favola” per spiegare come gli umani si raccontino (o si sentano raccontare) il processo di produzione della carne: secondo lei, chi ha oltrepassato quella favola cosa dovrebbe fare? Parlarne agli altri, spiegare come stanno le cose oppure essere solo un esempio silenzioso?
Ne “L’invenzione della speci”e provo a decostruire il concetto di “specie” così come il movimento femminista e queer ha decostruito quello di “genere”. A questo fine, interpreto lo specismo come l’intersezione letale tra un’ideologia che legittima lo smembramento istituzionalizzato dei corpi e l’insieme dei dispositivi che rendono possibile ed effettuano tale smembramento. Tralasciando in questa sede la descrizione dei dispositivi di smembramento, ritengo che l’ideologia giustificazionista dello specismo si fondi, per fare ancora una volta ricorso al pensiero di Derrida, sulla favola e sui calcoli. La favola è l’incessante ricerca di ciò che costituirebbe il “proprio dell’Uomo”, di ciò che, come ha detto lei, ci raccontiamo (o ci sentiamo raccontare) per differenziarci dal resto dei viventi animali. I calcoli, invece, sono i sistemi a cui facciamo ricorso per misurare la distanza tra la nostra “specie” e le altre e per costruire la tristemente nota scala gerarchica degli esseri. Ovviamente, la favola e i calcoli, qui come altrove, non sono indipendenti le une dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso in cui la favola naturalizza il calcolo – lo legittima e lo fa scomparire – e in cui il calcolo normalizza la favola – la inscrive a lettere di fuoco nella nostra carne e la trasforma in verità indubitabile. Detto questo, posso provare ad articolare una risposta alla sua domanda. Se quanto detto ha un senso, dovremmo cominciare a spostare l’enfasi del movimento di liberazione animale dalla morale e dall’individuo alla politica e alle strutture che regolano l’ordine sociale. Il cambiamento sociale non si realizza sommando scelte di vita individuali, ma innescando e promuovendo processi storici collettivi intesi a trasformare in possibile ciò che attualmente è ritenuto impossibile. Il che ovviamente, prevede che si parli con gli “altri”, ma che si “parli” nei giusti termini: non per evangelizzare, ma per portare alla luce il conflitto che corre tra istanze politiche in netta contrapposizione tra loro. Bisogna continuare a “parlare” perché è solo da qui che può svilupparsi la famosa massa critica, preludio irrinunciabile di ogni cambiamento sociale degno di questo nome.
Come considera i dibattiti in tv sul tema animalismo e alimentazione vegana?
Non sono un grande appassionato di televisione ma, per quello che ho visto, mi pare che i talk show su animalismo e veganismo siano, per usare un eufemismo, fallimentari – non per lo specismo, ovviamente! E questo per almeno due motivi: da un lato la scarsa preparazione e il pressapochismo imbarazzante di chi è invitato/a a sostenere le ragioni dell’antispecismo e dall’altro la forza del sistema specista che controlla e governa tali dibattiti senza lasciare nulla al caso.
Ci consiglia un libro da regalare a chi non sa nulla della tematica antispecista (anche se lei non ama questo termine …)?
Prima di risponderle vorrei spiegare le due ragioni per cui, pur facendone uso, non amo il termine “antispecismo”. La prima è perché il termine “antispecismo” è ancora debitore della nozione di “specie” che, tra gli altri abbagli, porta a pensare che le responsabilità dell’attuale massacro degli animali siano distribuite in modo equiparabile tra i membri della specie Homo sapiens. Dovremmo invece cominciare a renderci conto che non esiste una “specie padrona”, ma Umani padroni. Come è possibile considerare la questione animale in un tale vuoto pneumatico tanto da non riuscire più a fare distinzione tra le vittime umane di questo sistema economico-sociale – quelle che in questo stesso momento stanno morendo dopo essere state animalizzate – e i veri carnefici? La seconda perché il termine “antispecismo” si definisce per negazione, come ciò che non è specismo. Per usare le parole di Spinoza, questo termine veicola passioni tristi, mentre ciò di cui avremmo più bisogno, in una società che ha eretto il debito e la colpa ad imperativi categorici, sono le passioni gioiose. Quelle passioni gioiose che proprio la sensualità dei corpi animali (che anche noi siamo) non cessa di insegnarci. Insomma, dovremmo metterci tutti alla ricerca di un termine che esalti la potenza trasformativa dei corpi. Il che non corrisponde a edulcorare l’oscenità del mondo presente, perché più orrendo di far soffrire chi può soffrire è far soffrire chi potrebbe gioire. Infine, per rispondere alla sua domanda, suggerirei di regalare “Liberazione animale” di Peter Singer. Senza questo saggio, nel bene e nel male, il pensiero antispecista non si troverebbe qui dove si trova, per cui penso che questa sia un’ottima lettura per cominciare a far emergere il non detto e il mal detto intorno agli animali. Il che, ovviamente, non corrisponde a dire che questo saggio non sia criticabile, se critica significa ancora prendere in seria considerazione il pensiero di chi ci ha preceduto per andare oltre, per rendere sempre più potente il desiderio di un mondo altro.