Uomini e orsi: perché dare la colpa agli animali non serve a niente

Le notizie di cronaca rilanciano spesso il tema della difficile gestione del rapporto tra uomo e fauna selvatica: la giornalista Mary Roach racconta come gli altri Paesi affrontano la questione

Mary Roach è una giornalista scientifica americana. Per due anni ha girato mezzo mondo con un obiettivo particolare: conoscere e documentare come, in Paesi e da culture e legislazioni diverse, venga gestito il rapporto tra uomo e specie animali selvatiche. Elefanti, leopardi, scimmie, pinguini, coyote, ma anche gabbiani, topi e, ovviamente, orsi. Ne è venuto fuori un libro, Wanted! Quando la natura reagisce alla prepotenza dell’uomo e infrange le sue leggi (Aboca, 2023) la cui lettura – e copertina – risuona particolarmente attuale ogni volta che la cronaca rilancia notizie di incontri ravvicinati tra uomini e animali selvatici, in modo particolare orsi.

Bruchi a processo

Se questo genere di notizie servono, quantomeno, a riportare l’attenzione su un tema – quello del rapporto tra uomo e fauna selvatica non propriamente all’ordine del giorno in Italia – leggendo il libro di Roach scopriamo che, al contrario, in altre parti del mondo la questione è ben presente. E, anzi, lo è sempre stata se, come racconta la giornalista, nel 1659 proprio in Italia fu intentato addirittura un procedimento giudiziario contro un manipolo di bruchi, accusati di compiere razzie in frutteti e giardini. Nonostante l’ordine di comparizione emesso, i bruchi non si presentarono in aula, ma il giudice emise comunque la sentenza: gli imputati avevano il diritto di vivere liberamente, a patto di non danneggiare l’uomo. Per questo, fu deciso che dovessero avere un appezzamento di terreno a loro uso e consumo. Facile immaginare come sia andata a finire.

Una storia che fa sorridere ma che – spiega la giornalista americana – si è in realtà ripetuta più e più volte, in diverse varianti e con il coinvolgimento di altri animali nel corso del tempo. A riprova di quanto sia stato sempre intrinsecamente difficile risolvere “il conflitto tra l’uomo e la fauna selvatica. Dopo secoli – scrive Roach – non si è ancora trovata una soluzione soddisfacente alla domanda: ‘Cosa fare quando la natura infrange leggi che sono state pensate per le persone?‘”. Ovvero, quando “gli animali fanno cose da animali”.

La responsabilità dell’uomo

Spostando il punto di osservazione della faccenda dagli animali all’uomo, dallo studio delle diverse specie incontrate a distanza anche molto ravvicinata da Mary Roach emerge sempre chiaramente un punto: la responsabilità dell’uomo nella modificazione degli ambienti e delle dinamiche che regolano la convivenza e nella loro mancata gestione.

Roach va ad Aspen, in Colorado, meta sciistica di fama mondiale, dove gli orsi girano di notte per i vicoli ed entrano indisturbati nelle case. Non era così fino a prima degli anni Cinquanta quando nella fase di iperfagia – di fame abbondantissima che precede il letargo invernale – trovavano nei boschi tutto ciò di cui avevano bisogno per nutrirsi. Con l’arrivo degli sciatori nel secondo Dopoguerra, però, gli orsi hanno scoperto che, seguendo gli uomini nel centro cittadino sempre più affollato e vicino, potevano trovare molto altro da mangiare. Non è un caso che – riporta la giornalista – gli studi evidenzino come “il 90% degli orsi neri che feriscono gli esseri umani sono animali che si sono abituati – cioè si sono assuefatti alla presenza umana e non temo-
no più gli uomini – e che hanno iniziato ad apprezzarne il cibo”. È la spazzatura che producono gli uomini ad attirare gli orsi. Tanto che la misura principale con la quale viene gestita la situazione ad Aspen è l’uso di speciali contenitori per i rifiuti “anti-orso”.

Seppur in un contesto molto diverso, anche qui da noi, in Trentino – dove proprio il rapporto con gli orsi è spesso problematico – a determinare una vicinanza di sempre più difficile gestione è stata un’iniziativa umana: quella del progetto Life Ursus che negli anni Novanta ha portato alla reintroduzione sulle montagne dei plantigradi che erano diventati sempre più rari per effetto dell’ingerenza delle attività umane nei loro habitat alpini. Dieci esemplari, inizialmente, che ora sono diventati una novantina. Anche qui le associazioni animaliste come la Lav, che da sem- pre si oppongono legalmente alle decisioni che negli ultimi anni hanno portato alla carcerazione o all’uccisione degli orsi che attaccano l’uomo, chiedono che vengano introdotte misure per la convivenza, a partire proprio dai cassonetti per i rifiuti “anti-orso”.

Soluzioni che non funzionano

Quello che neanche ad Aspen hanno ancora capito bene è, però, cosa fare dopo che gli orsi hanno attaccato. Nel suo viaggio in Colorado al fianco di un esperto del National Wildlife Research Center Service americano che si occupa di cercare “alternative non mortali” per gli orsi che attaccano gli uomini e ne danneggiano le proprietà, Roach scopre che i due approcci di cui più si discute non funzionano. La cosiddetta “dissuasione” – ovvero far spaventare gli orsi senza ferirli perché non tornino più in città – non sortisce effetti perché, in un bilancio costi-benefici, gli orsi continuano ad assumersi il rischio per procacciarsi cibo che sono sicuri di trovare. Neanche le traslocazioni – e quindi lo spostamento degli animali in altre aree geografiche – funzionano perché, anche allontanati di centinaia di chilometri, è dimostrato che gli orsi trovano sempre il modo di “tornare a casa”. In realtà, spostare da un giorno all’altro gli animali, immettendoli in un sistema sociale che non è il loro – documenta la giornalista partendo dai dati americani – “è più utile per gestire l’opinione pubblica che per gestire gli orsi”. Ugualmente inutili sono anche le soluzioni mortali. Al di là dei dubbi etici – che sottendono tutto il racconto di Roach – l’abbattimento “è una soluzione temporanea. È come quando falci il prato, l’erba ricresce”, le spiega l’addetto del Centro di Ricerca. Ucciso l’orso giudicato colpevole di un attacco all’uomo, ce ne sarà un altro, prima o poi, che inizierà a compiere gli stessi atti.

La via del compromesso

Che fare allora? Negli Stati Uniti, è sempre più alta la percentuale di cittadini contraria all’uccisione degli animali selvatici, anche quando si rendono responsabili di danni all’uomo e alle sue attività. Anche per i biologi della fauna selvatica “il gioco è cambiato”, spiega a Roach la sua guida. Fino a pochi anni fa, al centro degli studi c’era come far tornare la fauna selvatica. Ora la questione è: come gestire le sue interazioni con l’uomo. Non c’è accordo culturale su come farlo, se non su un punto: provare a cambiare il punto di vista. “Gli specialisti del rapporto uomo-fauna selvatica – racconta la giornalista – stanno iniziando a spostare la loro attenzione dalla biologia e dal comportamento animale al comportamento umano. È la scienza delle human dimensions, delle dimensioni umane. L’obiettivo, non scientificamente dichiarato, è cercare nuove vie per giungere a compromessi e risolvere problemi”.

Conoscere per prevenire

Quello che però Roach mette a fuoco in un’altra tappa del viaggio dedicata agli orsi, sempre negli Stati Uniti, è che “prevenire è meglio che punire. La soluzione più sicura per entrambe le specie è tenerle separate. Evitare che gli orsi imparino ad associare gli esseri umani a un pasto facile. Esigere che gli abitanti di aree dove vivono gli orsi impediscano l’accesso alla spazzatura”. E poi, aumentare la conoscenza e la consapevolezza.

È l’obiettivo, per esempio, del WHART – Wildlife-Human Attack Response Training, un vero e proprio corso di formazione di cinque giorni durante il quale esperti canadesi – che di orsi ne hanno ben contezza – spiegano agli americani perché i plantigradi attaccano l’uomo (nella maggior parte dei casi per difendersi), come lo fanno (facendone “scempio” per quella che è la struttura della loro bocca e dei denti e non certamente per volontà di uccidere), cosa bisogna fare quando ci si trova davanti un orso (apparire il meno minacciosi possibile o, al contrario, provare a spaventarli, a seconda della specie di orso). E, soprattutto, cosa non fare mai: dargli le spalle e correre.

A migliaia di chilometri di distanza e in una realtà completamente diversa, è l’approccio che usano anche in India, nel Nord del Bengala, dove Mary Roach partecipa a un “campo di sensibilizzazione”, un incontro informativo organizzato per informare le persone sui pericoli e sulla gestione di un incontro con un elefante. Cosa frequentissima da quelle parti per motivi ancora una volta legati all’antropizzazione. Ovvero, l’occupazione da parte dell’uomo di quei “corridoi degli elefanti” lungo i quali anticamente gli animali si muovevano nel corso delle loro migrazioni stagionali e che nel corso del tempo sono stati “spezzettati” per farci piantagioni di tè, tagliare legna, far pascolare il bestiame, creare basi militari oppure insediamenti di rifugiati, “trasformando l’habitat degli elefanti in un habitat umano“. È così che “quello che era un corridoio è diventato un flipper. Nel giro di pochi anni gli animali non hanno più di che sostentarsi. Vagano nei villaggi per nutrirsi di quello che riescono a trovare, cioè campi coltivati e granai. Ecco – racconta Roach – che sorge il conflitto uomo-elefante”.

L’approccio indiano – che non prevede la soppressione dei pachidermi anche quando uccidono l’uomo – parte da questo punto: “Siamo noi, esseri umani, che li stiamo disturbando […] Più la gente capirà la biologia degli elefanti e il comportamento dei branchi, più sicuri saranno gli incontri con questi animali. Alla fine, si tratta solo di mantenere la calma e lasciare spazio sufficiente ai pachidermi». Cosa non propriamente facile a farsi, rimanere calmi davanti a un elefante, fosse anche un cucciolo – come racconta Roach con l’ironia che caratterizza tutta la sua narrazione, ma che in questa zona dell’India potrebbe far leva sul diffuso sentimento positivo della popolazione verso questi animali, anche a fronte dei gravi danni economici che provocano all’economia agricola.

Una questione culturale

Come dimostra il caso indiano, la risoluzione dei conflitti tra uomo e animali selvatici ha in effetti molto a che fare con la cultura e col modo in cui l’uomo si percepisce rispetto alle altre specie. Emerge chiaramente durante la tappa italiana del viaggio di Mary Roach. O, per meglio dire, la tappa vaticana. Da piazza San Pietro, la giornalista racconta dell’uso di potenti laser – dagli effetti non ben precisati sugli animali – per tenere lontani i famigerati gabbiani romani dalle decorazioni floreali delle celebrazioni della Pasqua. Ma anche del suo interessante incontro con un bioeticista della Pontificia Accademia per la Vita, l’organismo della Chiesa che si esprime sui grandi temi di bioetica, al quale Roach vuole fare domande in merito a una questione solamente all’apparenza più prosaica rispetto ad aborto o eutanasia. Ovvero: “In quali circostanze una particolare specie dovrebbe essere esente dalle protezioni morali contro sterminio e crudeltà?“.

La giornalista americana si interroga su fino a che punto il Papa attuale – quello che porta il nome di San Francesco ed è autore dell’Enciclica sulla protezione del Creato Laudato si’. Sulla cura della casa comune – “pensa che noi dobbiamo spingerci nella direzione del rispetto e della protezione del mondo naturale e dei suoi abitanti”. Una domanda – anche questa – che risuona rispetto alle frequenti esternazioni di Papa Francesco sul mondo di intendere l’amore verso gli animali domestici. Se considerare “figli” i propri animali a quattro zampe viene considerato dal Pontefice una sorta di aberrazione, si capisce che indagare – come fa Roach – il punto di vista della Santa Sede sui ratti – animaletti certamente meno simpatici, a primo avviso, del cagnolino di casa – risulta particolarmente interessante.

Roach incalza il bioeticista: accanto a Fratello Sole e Sorella Acqua, il Papa includerebbe anche Fratello Ratto? È etico uccidere un predatore che, a sua volta, uccide per istinto? I sentimenti dell’uomo attaccato nella sua persona o nei suoi averi – animali d’allevamento compresi – valgono di più della vita di un animale predatore? Domande, poste sorseggiando un tè accompagnato da una fetta di colomba, alle quali Roach non trova risposta.

Prendere posizione

Il viaggio della giornalista americana tra Paesi e animali – ma anche alberi e leguminose – prosegue per il mondo con molte altre tappe mettendo insieme storie di conflitti diversi tra loro dalle quali emerge come ognuna “richieda una soluzione adatta a quel particolare ambiente, a quella particolare specie, agli interessi in gioco e alle parti in causa”. Fino al ranch di un grande produttore agricolo e di carne del Colorado.

La giornalista americana vi arriva dopo la visita a un centro di ricerca nel quale si sperimenta la “spaventosa magia” degli impulsi genici come soluzione per contenere la proliferazione dei topi in determinate situazioni. Rispetto alle enormi incognite che la manipolazione genetica sugli animali porta con sé come mezzo di controllo della fauna selvatica, l’approccio del coltivatore Roger suona ben più pragmatico: lasciare che i ratti che invadono il ranch facciano il loro e che il microcosmo animale della fattoria, in qualche modo, si autoregoli per natura. “Senza nemmeno pronunciarne le parole, Roger pratica coesistenza e biocontrollo. Il foraggio che perde a causa di roditori e uccelli rientra nel costo che svolgere un’attività implica. Ai miei occhi – sottolinea la giornalista – rappresenta un futuro possibile in cui la gente magari sarà frustrata per via di animali selvatici che si intromettono nelle sue faccende ma convivrà”.

Prima di tornare a casa – con molte domande ancora aperte – Mary Roach si concede dal ranch di Roger un’ultima riflessione. Questa volta riguarda gli animali da allevamento – il bestiame pronto a diventare hamburger di fianco al quale sta passando – ma che è facilmente spendibile anche rispetto al tema della fauna selvatica. “Quello che conta non è la quantità – riflette nelle ultime pagine del libro la giornalista americana – bensì la posizione che prendi o non prendi. Quando dici a qualcuno di non mangiare carne – o che non utilizzerai mai una trappola adesiva – rendi la loro alternativa meno agevole. Impedisci che continui a essere una cosa su cui non riflettere minimamente”.

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