La “biologia della gentilezza”: cos’è e perché può aiutarci a vivere meglio

E se a sopravvivere all’evoluzione umana non fosse stato il più forte ma il più gentile? Due studiosi ci dimostrano come gentilezza, ottimismo, gratitudine, perdono e felicità siano in grado di interagire sul nostro DNA migliorando la qualità della vita

La “biologia della gentilezza”, prima di essere un libro, è l’incontro tra due ricercatori di fama internazionale, Daniel Lumera, esperto in scienze del benessere, qualità della vita e meditazione, e Immaculata De Vivo, scienziata e docente alla Harvard Medical School. Due approcci accomunati dalla volontà di mettere a confronto le rigorose scoperte della scienza e gli antichi saperi collettivi, per offrire uno sguardo rivoluzionario su salute, abitudini quotidiane, genetica, benessere psico-fisico e longevità, in un’ottica di interconnessione e di identità collettiva.

Il dialogo fra i due è diventato un libro – intitolato, appunto, La biologia della gentilezza – che, con un linguaggio comprensibile a tutti, mette a disposizione ricerche accademiche solitamente disponibili solo per gli esperti del settore dimostrando che il destino di ognuno non è già scritto sin dalla nascita nel proprio DNA, poiché l’uomo ha il potere di influire quotidianamente su di esso, modificandolo con risultati ampiamente positivi sia per sé che per gli altri.

Per sopravvivere meglio essere forti o gentili?

La parola “gentilezza” deriva dal latino gens, termine che indicava un gruppo familiare allargato, un clan di appartenenza. Nell’antica Roma la gens era una sorta di famiglia nobile in cui ciascuno, al di là dei legami di sangue, aveva reciproci doveri di difesa e assistenza. Gentilis, in latino, significava gentilezza essere parte dello stesso gruppo in quanto accomunati non tanto da comportamenti formali esteriori, ma da un sentimento interiore: la nobiltà d’animo. La gentilezza non è solo sinonimo di “ben educato” bensì, racconta Lumera, rappresenta un valore sociale che crea senso di appartenenza e che si può tradurre in tutto ciò che facciamo in modo disinteressato, senza un tornaconto e col solo obiettivo di far star bene qualcun altro. La “biologia della gentilezza” è quindi, prima di tutto, una biologia dei valori. I grandi filosofi e mistici del passato lo avevano intuito secoli fa, ma oggi a sostenerlo è anche la scienza: gentilezza, ottimismo, perdono, gratitudine e felicità hanno un corrispettivo biologico e possono essere tradotti in numeri, reazioni chimiche ed enzimatiche.

Trasformare la gentilezza da valore in azione

Questo approccio inverte una cattiva interpretazione del pensiero di Darwin, secondo il quale il soggetto più in grado di sopravvivere è quello più pronto e adatto al cambiamento. Da sempre, ciò è stato erroneamente interpretato attraverso una visione antropocentrica che ha fomentato, come afferma Lumera, una società competitiva che identifica tutt’oggi il più adattato con il più forte, inteso come persona in grado di imporsi in termini fisici, mentali o economici sugli altri. La “biologia della gentilezza” vuole provare a invertire questo paradigma, raccontandoci che il più adatto al cambiamento è, invece, il più gentile. Come sostiene Lumera, la gentilezza è la strategia migliore da scegliere a lungo termine, non solo per la nostra salute o a livello biologico, ma anche nelle nostre relazioni. Le culture millenarie, come ad esempio alcune tradizioni orientali, hanno sempre spinto a lavorare in un’unica direzione, ossia superare l’ego e andare al di là di quella sensazione che abbiamo di essere il centro dell’universo e del nostro pianeta (e che trasforma così l’homo-sapiens in “ego-sapiens”). A tal proposito, Lumera sostiene che una delle più grandi azioni (ri)educative che dobbiamo compiere è risanare il grande senso di frattura che l’uomo percepisce con il mondo esterno, nella direzione di un processo inclusivo verso gli altri e di espansione del nostro senso di identità.

L’approccio proposto da Lmera e De Vivo educa anche all’ascolto costante e alla comprensione di come funziona la nostra mente “per smettere di essere – afferma lo studioso – il prodotto di un’immaginazione pilotata da messaggi di marketing” e avere una mente “perfetta”, ovvero capace di creare un mondo a partire dalle proprie esigenze più profonde, che non sono quelle narrate da un sistema votato al consumo. La biologia della gentilezza esplora questa connessione come nuovo senso di identità dell’essere umano e propone delle strategie evolutive per sopravvivere, da includere nei vari sistemi sociali a cui apparteniamo: scuole, ospedali, carceri e via discorrendo. Motivo per cui, questo libro, si è trasformato anche nel Movimento Italia Gentile, un progetto promosso dall’Associazione di volontariato My Life Design Onlus, “un movimento collettivo nazionale, aconfessionale, apartitico e apolitico – spiega Lumera – che coinvolgendo persone, enti, imprese e istituzioni prova a diffondere il valore della gentilezza e a trasformarlo in progetti concreti ad alto impatto sociale”

Telomeri: le “sentinelle” del dna sensibili alla gentilezza

Praticare gentilezza e atti di altruismo è un’abitudine che ci fa stare meglio e a dirlo non è solo il buon senso, ma anche la scienza, che negli ultimi decenni, come spiega la dottoressa De Vivo, ha analizzato ogni nostra cellula alla ricerca di conferme su ciò che a istinto abbiamo sempre saputo: vivere in armonia con noi stessi e con gli altri può regalarci una vita lunga, serena e in salute. A oggi, lo stile di vita che scegliamo ha un impatto molto più significativo sul nostro benessere rispetto alla nostra genetica di partenza.

Ma come facciamo a sapere cosa ci fa bene? Per la scienza la risposta sta in alcune molecole presenti nel nostro organismo, dette biomarcatori, che svolgono il ruolo fondamentale di “sentinelle” della nostra salute grazie alla loro capacità di indicare se siamo o meno predisposti a sviluppare condizioni di malattia. De Vivo è tra le scienziate al mondo più esperte nello studio dei cosiddetti “telomeri”, delle vere e proprie “superstar” tra i biomarcatori. Nel 2009, Elizabeth Blackburn Carol W. Greider e Jack W. Szostak hanno vinto il Premio Nobel per la Medicina proprio come autori della scoperta dei telomeri e del meccanismo attraverso il quale essi proteggono i cromosomi dalla degradazione.

Per prima cosa, i telomeri “sono i più importanti e significativi marcatori dell’invecchiamento – spiega la dottoressa De Vivo – dato che il loro accorciamento è naturalmente connesso al passare degli anni”, per questo la scienza considera i telomeri come un vero e proprio orologio biologico che determina la vita di ogni cellula e di conseguenza dell’organismo a cui appartiene: “Telomeri più lunghi – spiega De Vivo – sono associati a individui longevi, mentre telomeri a lunghezza ridotta sono associati a una minore aspettativa di vita”.

Telomeri e stile di vita

L’accorciamento dei telomeri però non è solo un processo naturale: “Abbiamo capito che il nostro DNA è modificabile e che le nostre scelte di vita possono trasformare la genetica, che risponde alle sollecitazioni dell’ambiente esterno e si adatta a condizioni di continua evoluzione”. Gli scienziati hanno deciso di usare questi biomarcatori per verificare la suscettibilità delle persone a malattie croniche e, dopo aver ottenuto numerose conferme su fattori quali un’alimentazione prevalentemente vegetale, un moderato livello di attività fisica, un sonno regolare e altre note sane abitudini, hanno iniziato a indagare anche l’impatto di altri comportamenti e disposizioni mentali Ecco, allora, dimostrato come la meditazione, ma anche atteggiamenti quali la gentilezza, l’ottimismo, l’empatia, l’apertura verso gli altri, la compassione siano tutti potenti fattori di riduzione dello stress e quindi, afferma De Vivo, “amici dei nostri telomeri, che sono infatti risultati più lunghi nelle persone che adottano questo tipo di comportamenti”. L’invecchiamento resta un processo inesorabile, ma solo in parte determinato geneticamente: possiamo fare qualcosa per rallentarlo.

Più gentili, ossia meno stressati e più interconnessi

La risposta a una situazione molto stressante in biologia si chiama fight or flight, combatti o fuggi, in quanto ci permette di affrontare il pericolo o scappare da esso con tutte le nostre forze. Si tratta di un meccanismo frutto di millenni di adattamento all’ambiente e da sempre utile alla nostra sopravvivenza. Se però nella preistoria, il nostro fight or flight – con tutta la sua carrellata di reazioni biochimiche (come ad esempio il rilascio di alcuni ormoni specifici, l’aumento della frequenza cardiaca e della concentrazione degli zuccheri nel sangue o, ancora, l’attenuazione del dolore) – si innescava di fronte all’inaspettato incontro con un pericoloso predatore, oggi è molto probabile che tale meccanismo si attivi mentre stiamo guidando per andare a lavoro durante l’ora di punta, magari tra bambini da accompagnare a scuola, automobilisti che strapazzano il clacson a più non posso e pensieri in merito al nostro stesso ritardo, alle bollette da pagare e alla suocera che arriverà in serata.

Non si tratta di una belva feroce e non siamo in pericolo di vita, ma questo il nostro corpo non lo sa e la pressione psicologica a cui siamo sottoposti, spiega De Vivo, attiva la medesima risposta biochimica. Il problema è che per la maggior parte di noi si tratta di una risposta continua a uno stato di allarme che non si spegne mai. Siamo accomunati da un logorio senza fine, non previsto dalla nostra evoluzione, con un impatto deleterio sulla nostra salute.

Cosa c’entra, quindi, lo stress con i telomeri e la gentilezza? I telomeri sono “sensibili” alle condizioni esterne per cui lo stress può incidere direttamente su di essi. In risposta a stimoli negativi, infatti, il nostro corpo rilascia ormoni come il cortisone che, una volta nel sangue, creano stress ossidativo e infiammazione, “le due condizioni biochimiche che – afferma la scienziata – favoriscono il logoramento accelerato dei telomeri”. Dobbiamo immaginare lo stress come un veleno per il nostro DNA che, lì per lì, non ci uccide ma a piccole dosi, giorno dopo giorno, rende tossico il nostro ambiente cellulare, favorendo così l’insorgere di patologie nel lungo periodo.

Conoscere queste dinamiche ci per mette di comprendere che non possiamo eliminare del tutto lo stress dalla nostra vita, ma possiamo modificare il modo in cui reagiamo a esso. Ogni giorno possiamo scegliere se allentare le tensioni in famiglia e sul lavoro, anziché subirle o alimentarle. Possiamo decidere di smetterla di arrabbiarci inutilmente o portare rancore per episodi di poco conto accumulando aggressività. I telomeri parlano chiaro: non si torna indietro, una volta fatto il danno il processo cellulare è irreversibile e si può solo attenuare con strategie protettive appartenenti a stili di vita sani.

“Quello che rileviamo nei nostri laboratori – racconta ancora la dottoressa De Vivo – è un grido disperato delle nostra cellule, che chiedono di essere protette dallo stress, dal cibo spazzatura, dalla sedentarietà“. Risparmiamo qualsiasi pressione psicosociale agli altri, perché essa si imprime a fuoco nella nostra biologia, rovinando la qualità generale delle nostre vite. Se è vero che di fronte agli infiniti meccanismi di riequilibrio della natura, ogni singola specie non può che o evolversi o essere scartata, è giunto il momento di prendere consapevolezza di una responsabilità inscritta nel codice genetico di tutti noi, che attraverso la gentilezza può restituire un significato e un senso alle nostre esistenze, dentro e fuori, da sempre interconnesse.

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