Cosa dice la proposta di legge contro gli allevamenti intensivi
Presso la Camera dei Deputati, un gruppo di associazioni ambientaliste e animaliste ha presentato l’idea di una transizione definita “agroecologica”
Alla Camera dei Deputati è stata presentata qualche giorno fa una proposta di legge per il superamento degli allevamenti intensivi in Italia. A firmare la proposta, basata su un manifesto condiviso, sono state Greenpeace Italia, ISDE, Lipu, Terra! e WWF appoggiate da alcuni rappresentati dei partiti italiani in modo abbastanza trasversale (Michela Vittoria Brambilla (Noi Moderati) ed Eleonora Evi (Alleanza Verdi Sinistra) dell’intergruppo parlamentare per i diritti degli animali e la tutela dell’ambiente, Arturo Scotto, dell’intergruppo parlamentare per il contrasto ai cambiamenti climatici, Andrea Orlando e Chiara Gribaudo (Partito Democratico). Ma quali sono le basi di questa proposta e che cosa si vuole ottenere?
Cosa dice la proposta di legge contro gli allevamenti intensivi?
“Le legge- spiega il manifesto – intende modificare in senso agroecologico proprio quelle caratteristiche del nostro sistema zootecnico che sono alla radice dell’insostenibilità ambientale ed economica del settore, a partire dai metodi di allevamento e dall’eccessivo numero di animali allevati, nonché dalla dipendenza dai prodotti farmaceutici (antibiotici), avendo come obiettivo anche quello di migliorare il benessere degli animali”. In sintesi estrema puntare su allevamenti più piccoli, con numeri ridotti e che applichino sistemi di allevamento sostenibili. Come base della proposta rimane l’idea che questa transizione non può essere nemmeno immaginata senza una riduzione dei consumi e di conseguenza della produzione (una parte della quale è anche in esportazione dal nostro paese verso l’estero) e senza una collaborazione da parte degli stessi allevatori.
“Nella proposta di legge – leggiamo sempre nel manifesto – è prevista l’elaborazione di un piano di riconversione del settore zootecnico che contempla incentivi economici e tecnici per sostenere le aziende verso l’adozione di pratiche sostenibili”; non sono presi in considerazione gli “allevamenti piccoli e che non rientrano nella definizione di intensivo e che praticano il pascolo all’aperto”.
Quindi gli allevamenti chiuderebbero?
Entrando ulteriormente nel dettaglio, si legge: “La proposta non prevede la chiusura degli allevamenti già in funzione, ma una moratoria immediata sull’apertura di nuovi allevamenti intensivi e sull’aumento del numero di animali allevati in quelli già esistenti, nell’attesa dell’implementazione di un piano nazionale di riconversione dei modelli di allevamento più impattanti, che dedichi adeguate risorse economiche a sostegno della transizione ecologica delle aziende”. A tutto questo, fortunatamente, si affianca anche l’idea di “dedicare la giusta attenzione a programmi di educazione alimentare per promuovere diete sane ed equilibrate con la necessaria riduzione dei consumi di carne e di altre proteine di origine animale”.
Si tratta di una proposta politica nel vero senso della parola che, morbidamente, chiede che gli allevamenti intensivi (che pure economicamente, come spiegato dalle stesse associazioni, non si reggono in piedi economicamente richiedendo con periodicità l’intervento dei governi con incentivi e sgravi) vengano prima “congelati” nello stato di fatto attuale e poi, lentamente riconvertiti con ampie sovvenzioni economiche.
Nel frattempo i dati forniti da Greenpeace ci dicono che in Italia, ogni anno, vengono allevati circa 700 milioni di animali e che la concentrazione maggiore si trova nel Nord Italia. Inoltre “il 60% dei cereali e delle farine proteiche impiegate per produrre mangimi sono importati da Paesi extra UE, con un impatto ambientale enorme per la perdita di biodiversità a causa della distruzione delle foreste primarie e l’utilizzo di pesticidi, in particolare per la produzione di mais e soia in paesi del sud America come Argentina e Brasile”.