Anche l’alimentazione è un’abitudine ed è possibile cambiarla (in meglio)
Le abitudini, spiega la scienza, guidano le nostre giornate, anche per quanto riguarda l’alimentazione. In un saggio fondamentale, “Il potere della abitudini” il premio Pulitzer Charles Duhigg, ci spiega che cosa sta alla base del loop che condiziona le nostre vite
di Benedetta Rutigliano
“Un essere che si abitua a tutto: ecco, penso sia la migliore definizione che si possa dare dell’uomo”, così descriveva la sua specie lo scrittore e filosofo russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij, elogiando la capacità umana di adattarsi ai cambiamenti, modificando vecchie abitudini e acquisendone di nuove. Un atteggiamento in contrasto con l’accezione negativa spesso associata al verbo “abituarsi”, quasi sinonimo di una resistenza al cambiamento, di un’azione difficilmente modificabile. “Abituarsi” viene dal latino habitus, in italiano “abito”: quello strato che ci divide dal resto del mondo riflettendo qualcosa di noi. Anche con gli abiti siamo abitudinari, poiché alcuni “ci fanno sentire meglio” di altri, per motivi estetici o etici, ma spesso mostriamo un cambiamento proprio attraverso di essi, scegliendo colori o modelli diversi dai soliti.
Risparmio energetico
Allo stesso modo l’abitudine rispecchia noi e i nostri cambiamenti, si modifica. Il suo meccanismo si innesca perché il nostro cervello possa risparmiare energia, come racconta lo scrittore Charles Duhigg, (Premio Pulitzer nel 2013, laureato alla Harvard Business School e giornalista del “New York Times”) nel best seller “Il potere delle abitudini” (2012). “Quasi tutte le scelte che compiamo ogni giorno potrebbero sembrarci il risultato di decisioni ponderate, ma non è così. Sono abitudini”, rivela Duhigg, studiando cosa avviene nel nostro corpo: i nuclei di base del cervello, quel gruppo di cellule al centro del cranio predisposto al controllo dei comportamenti automatici, identificano un segnale a cui corrisponde una gratificazione, che raggiungiamo con l’instaurarsi di una specifica routine. I nuclei riconoscono l’abitudine che si è attivata rendendoci capaci di pensare ad altro mentre seguiamo un circolo ormai familiare: è così che, banalmente, ogni giorno possiamo svegliarci, andare in cucina a bere l’acqua, preparare la colazione e poi lavarci i denti secondo una medesima sequenza, senza doverci interrogare sul da farsi a ogni risveglio.
“Si è sempre fatto così”
Lo stesso meccanismo domina la nostra dieta, frutto di un’abitudine determinata dalla cultura alimentare della nostra famiglia, dalle sue origini geografiche, sociali e culturali: sin da piccoli veniamo abituati dai nostri genitori a mangiare determinati cibi, per cui se crescendo, per motivi etici o di salute, modifichiamo quel tipo di alimentazione, il processo che sta tra il pensare di farlo e il farlo è insidiato da resistenze, anche fisiologiche, dovute proprio alla cultura alimentare.
“Si è sempre fatto così”, insistono i nostri parenti, dando man forte al messaggio suggerito dal cervello che, come spiegava Duhigg, a un certo segnale risponde con una routine – alimentare in questo caso – ben conosciuta, perché altrettanto nota è la gratificazione che ne deriva. Per fortuna questo meccanismo non è inamovibile. Il libro dello scrittore newyorkese spiega infatti come sia possibile modificare le vecchie abitudini, anche quelle che riteniamo ormai trappole. Bisogna identificare il segnale e la gratificazione legati all’abitudine “incriminata”, e di conseguenza si potrà sostituire la vecchia routine con quella nuova. O introdurre un’abitudine ex novo. Anche questo è possibile, insegna Duhigg con la vicenda del dirigente americano Claude Hopkins, che a inizio Novecento trasformò Pepsodent in uno dei dentifrici più conosciuti al mondo dando il via in America, dove l’igiene orale era sconosciuta, all’abitudine di lavarsi i denti. Come? “Creò un bisogno. E questo bisogno innesca segnali e gratificazioni. Il bisogno è alla base del loop habit, il circolo dell’abitudine”, rivela il giornalista del “New York Times”. Hopkins fece leva sulla patina che si forma sui denti rendendo meno splendente il nostro sorriso, per convincere i contemporanei che lavandoli con Pepsodent l’avrebbero eliminata, rendendoli più belli. Come snobbare un’abitudine che dà bellezza? Allo stesso modo, conoscendo i benefici di una dieta cruelty free e i costi etici e ambientali degli allevamenti intensivi, come non adottare abitudini che ci fanno sentire delle persone migliori, oltre a essere più sane?
Conoscere per cambiare
Persino la cultura alimentare italiana sta cambiando, come dimostrano i dati sulla diffusione dell’alimentazione vegetariana e vegana. Dati interessanti per un Paese come il nostro, modello per la dieta mediterranea che è Patrimonio dell’Umanità Unesco e che, pur promuovendo proteine vegetali e verdure assieme ai carboidrati, contempla il pesce, le carni, i derivati di origine animale. Cosa è cambiato? Siamo più consapevoli della provenienza degli alimenti, del percorso fatto per arrivare nei nostri piatti, dello sfruttamento animale e delle conseguenze ambientali che stanno dietro a un allevamento, dietro quella cotoletta che ci ha sempre fatto gola: sin da piccoli siamo stati abituati a mangiarla in una situazione di comfort, associandola a emozioni che vengono rievocate già solo dal suo odore; ora, guardandola con occhi consapevoli, ci parla più di morte che di vita.
Quel che abbiamo dimenticato, inoltre, è che un tempo la carne era un lusso da ricchi, i legumi spettavano ai meno abbienti. Ciò lo ritroviamo anche nel mito ormai sfatato delle proteine “nobili”, appunto quelle della carne, e “incomplete”, quelle dei legumi; le ultime, è noto, hanno anche il vantaggio di non contenere colesterolo, deleterio per il nostro organismo. Con gli studi e la rapida diffusione di informazioni, oggi siamo a conoscenza non solo di alternative alimentai gustose, ma degli effettivi nutrienti di alcuni alimenti un tempo relegati solo a certi periodi dell’anno: sempre per abitudine, e per quella cultura alimentare trasmessa da generazioni. Un esempio lampante è la frutta secca, immancabile sulle tavole di Natale e Capodanno, ma inesistente nel resto dell’anno “perché ingrassa”. Non è così. La frutta secca, assieme ai semi oleosi, contiene sì calorie, ma anche fibre che aumentano il senso di sazietà, per cui induce a non mangiare oltre un certo fabbisogno. È per tutto l’anno un alimento complementare perché fonte di proteine, acidi grassi essenziali (linoleico e al- falinolenico) e minerali tra cui ferro, calcio e zinco, vitamine del gruppo B (B12 esclusa) e vitamina E. Inoltre contiene sostanze che esercitano un effetto positivo sull’organismo come polifenoli e steroli vegetali. Come farne a meno nella quotidianità, ora?
A piccoli passi
Conoscere meglio gli alimenti di cui disponiamo aiuta a disinnescare certe abitudini. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Benedetta Raspini, laureata in Biologia, con un master in Nutrizione Clinica e specializzata in Scienza dell’Alimentazione, ricercatrice della Fondazione Umberto Veronesi. “Sta al bravo professionista far intendere al paziente cosa sia un stile di vita sano, che comprende alimentazione, idratazione, sport. È necessario fare educazione alimentare, spiegando i benefici di un’alimentazione equilibrata, cucita su ogni persona. Bisogna rendere note le alternative per alcuni alimenti, privilegiando cereali integrali, verdure, zuccheri ridotti: solo così si acquisisce consapevolezza, e una volta intravisti in benefici di una dieta che funziona, è difficile tornare indietro“. Per scardinare quel meccanismo di resistenza e non demotivarsi “ci si deve porre degli obiettivi raggiungibili nel tempo – continua la dottoressa – lavorando step by step, senza puntare al cambiamento totale immediato”. Anche Duhigg nel suo best seller ci invita a cambiare le abitudini individuando dei piccoli obiettivi, che conducono poi a trasformazioni anche radicali.
E se “sgarro”?
Sembra facile, ma sappiamo che non è così. Chi non ricade in una vecchia abitudine facendo uno “sgarro”? “Non lo chiamerei neanche sgarro ma normalità”, rassicura la nutrizionista quando le chiediamo se questo possa farci abbandonare la nuova via: “È normale cadere, non è un problema né un fallimento. Fa parte del ciclo, ci si ferma e si riparte”. Spesso, infatti, si acquisiscono abitudini sbagliate non solo per fretta e praticità, ma per emozioni come rabbia e tristezza a cui si risponde con determinati comportamenti alimentari: ancora una volta, il professionista ci aiuta a rintracciarli con un’anamnesi ad hoc, poiché spesso alcuni atteggiamenti, proprio perché abitudinari, non li viviamo più come scelte, ma come automatismi.
Quanto c’entro io?
Fondamentale, non solo in questo ambito, la responsabilità personale. Abbiamo la responsabilità di chiederci se un’abitudine sia corretta o meno. Per noi come singoli. Per la collettività, per l’ambiente che abitiamo. “Un’alimentazione più sostenibile prevede l’incremento di legumi in abbinamento con qualche cereale”, precisa Raspini, “facendo attenzione a un altro tema cruciale, quello dello spreco: andrebbe limitato, per cui suggerisco ai miei pazienti anche il riciclo, spiegandogli come utilizzare domani quel che hanno cucinato oggi, o come congelarlo”. Queste “buone pratiche” in direzione green, se adottate, diventano nuove abitudini acquisite che andremo a passare alle generazioni future, così come è successo a noi, che a differenza delle generazioni passate abbiamo uno sguardo più consapevole e possiamo tramandare abitudini più sostenibili e salutari per tutti gli abitanti del pianeta: uomini, animali, piante.
La dottoressa Raspini, nel libro “I nostri primi mille giorni” (Sperling&Kupfer, 2020) spiega come le abitudini alimentari che una madre adotta in particolare durante la gravidanza, i sei mesi di allattamento esclusivo e fino ai due anni di età del piccolo, facciano la differenza per la salute del bambino e del futuro adulto. La formazione del nostro microbiota, infatti, costituito dai milioni di batteri che popolano l’intestino, è fortemente influenzata, almeno per il 40%, dalla dieta dei primi mille giorni, quel periodo inteso dal concepimento ai 24 mesi del bambino. Non è cosa di poco conto, perché si è scoperto che il microbiota influisce non solo sulle preferenze alimentari del futuro adulto, per cui, se sin da piccoli si è abituati a mangiare le verdure e a vederle mangiare dai nostri genitori, verrà automatico, per quanto detto fino a ora, continuare quel tipo di alimentazione con la crescita; ma, ancor più rilevante, il microbiota influenza metabolismo, il sistema immunitario e quindi lo sviluppo o meno di determinate patologie. È per questo che la dieta che adottiamo deve diventare sempre di più una scelta, perché “siamo ciò che mangiamo”, come suggeriva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach.
Dalla routine alla rivoluzione
Per modificare le abitudini, continua Duhigg, “è necessario un altro ingrediente: crederci“. Che è ancor più facile quando si è inseriti in gruppi sociali desiderosi di cambiare nella stessa direzione. Ciò spiega come le abitudini sociali siano alla radice di movimenti e rivoluzioni: hanno inizio per via di legami stretti di amicizia, si estendono con l’appartenenza a una comunità e a legami deboli, diventano durevoli grazie a leader che creano un rinnovato senso di identità. Come accadde per il movimento dei diritti civili afroamericani, nato col boicottaggio dei mezzi pubblici promosso da Rosa Parks, donna rispettata da tutta la comunità e per questo emulata, guidato poi dal pastore Martin Luther King, icona pacifista. Negli ultimi anni hanno fatto clamore gli scioperi Friday for futures, influenzati dall’allora sedicenne Greta Thunberg, che ha colto lo scontento della sua generazione e ha raggiunto con le sue parole persone di tutte le età, appellandosi ai governi, ma anche alla responsabilità di ciascuno, in nome della lotta al cambiamento climatico. Una lotta a cui si può contribuire modificando, per esempio, quelle abitudini alimenttari che incentivano gli allevamenti e lo sfruttamento degli animali.
Il fattore 1%
Certi cambiamenti, però, sembrano così enormi da paralizzarci perché, non sapendo da dove cominciare, e impigriti dai meccanismi del nostro cervello, a volte preferiamo non abbandonare la vecchia via. “Per arrivare a produrre grandi cambiamenti bisogna concentrarsi su piccole azioni”, insiste Luca Mazzucchelli, psicologo, psicoterapeuta e vicepresidente dell’Ordine degli
Psicologi della Lombardia. L’autore del libro “Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati” (Giunti, 2019), infatti, scrive: “Il fattore 1% rappresenta l’approccio mentale con il quale mettersi in viaggio. Il modo migliore per attuare grandi cambiamenti è quello di metterne in atto tanti piccoli e ripetuti nel tempo, interpretando la vita non come una corsa dei 100 metri ostacoli, ma come una lunga maratona nella quale gestire al meglio le risorse disponibili”. Per lo psicoterapeuta è utile modificare i propri schemi comportamentali ogni giorno dell’1%, inserendo nelle abitudini un 1% di novità per evitare il rischio di inflessibilità. Il cambiamento deve essere “attivabile con poco sforzo, raggiungibile, coinvolgente. Più segnali riusciremo a inserire lungo la strada, maggiori saranno le possibilità di trasformare un determinato comportamento in abitudine”, aggiunge Mazzucchelli nel suo manuale pratico, invitando a nascondere i segnali che inducono ad abitudini che vogliamo abbandonare, e ad avvicinarci a quelle persone con cui condividiamo il cambiamento, per rafforzare la motivazione, che sola non basta.
La questione del feedback
Nell’ottica del cambiamento green, i cui effetti spesso sono visibili a lungo termine e riguardo ai quali è più facile perdere di vista l’obiettivo, cade a pennello la riflessione dello psicoterapeuta sull’ambiente che abitiamo: “Vivendo in una società a ritorno ritardato e avendo ancora una mente calibrata sul ritorno immediato, perdiamo il feedback, ossia la riprova che quello che stiamo facendo è giusto oppure no. E questa perdita ha un impatto devastante sul nostro modo di restare motivati e costanti nel tempo”. Mazzucchelli, quindi, incita a misurare i progressi adottando dei feedback sul breve termine, misurando i piccoli miglioramenti ottenuti di volta in volta o gli obiettivi già raggiunti. Un esempio? Decidere di fare sempre colazione con latte vegetale, oppure di non comprare più tovaglioli di carta, o prepararsi sempre il tè sfuso non comprando più bustine dai mille packaging o, ancora, decidere di fare un pasto al giorno, ogni giorno, sempre e solo vegan.
Da dove partire?
In ogni caso, ribadisce lo psicoterapeuta, “il segreto per cambiare gli altri è cambiare se stessi”, come già espresse Mahatma Ghandi: “Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare se stesso“. Proprio da noi, quindi, dobbiamo cominciare. Interrogandoci sulle nostre abitudini, migliorando quelle nocive, introducendone nuove di cui apprendiamo i futuri benefici. Il miglioramento personale influenza chi ci sta vicino e chi viene dopo di noi, ricadendo su scala globale, perché siamo parte di qualcosa di più grande. Persino la fatica iniziale del cambiamento di routine si trasforma in piacere, una volta goduti i vantaggi della nuova abitudine; una scelta che ci rende protagonisti della nostra vita e di un cambiamento diffuso, anziché schiavi di automatismi.