Gli allevamenti distruggono le specie selvatiche: l’articolo su “Science” incita i governi ad una dieta vegetale
L’articolo comparso come editoriale della rivista scientifica, spiega che non è più possibile ignorare il problema e che occorre soprattutto prevenzione.
Science è considerata una delle più prestigiose riviste in campo scientifico. Nel suo ultimo numero l’editoriale è dedicato alla ricerca di due studiosi, Thijs Kuiken, professore di virologia all’Università di Rotterdam e Ruth Cromie, consigliere per la salute della fauna selvatica per la Convenzione sulle specie migratorie a Bristol, nel Regno Unito, che ha chiaramente spiegato il pericolo costante generato dagli allevamenti intensivi come serbatoi di virus patogeni verso le specie selvatiche e poi, in modo diretto o indiretto, verso l’uomo.
L’articolo fa riferimento in particolare alla vastissima epidemia di influenza aviaria tutt’ora in corso: “Gli uccelli marini in Europa, Nord America e Africa sono andati incontro ad una mortalità senza precedenti a causa dell’influenza aviaria altamente patogena (HPAI) che ha colpito le loro colonie riproduttive”. L‘attuale virus HPAI ha avuto origine in un allevamento commerciale di oche in Cina nel 1996, si è diffuso tra le popolazioni di pollame in Asia, per poi estendersi sostanzialmente agli uccelli selvatici nel 2005: persiste tutto l’anno negli uccelli selvatici in Europa dal 2021.
La minaccia per le specie selvatiche è enorme: “A livello globale, negli ultimi 50 anni, la popolazione di pollame è cresciuta di 6,1 volte, passando da 5,71 a 35,07 miliardi; quella dei suini , 1,7 volte da 547,17 a 952,63 milioni; e quella del bestiame, 1,4 volte da 1,08 a 1,53 miliardi. Queste grandi popolazioni di bestiame, collegate attraverso il commercio, formano serbatoi in cui le malattie infettive possono evolversi e riversarsi nella fauna selvatica, a volte con conseguenze devastanti”. Lo stesso processo si è innescato per la peste suina africana che riguarda attualmente anche l’Italia e la popolazione di suini domestici e cinghiali selvatici sparsi sul nostro territorio.
Il problema sottolineato dall’articolo è l’atteggiamento dei governi:”Le malattie del bestiame sono viste principalmente come un problema economico per il settore agricolo (oltre che una preoccupazione per la salute umana se possono potenzialmente passare dagli animali all’uomo), e sono gestite come tali dalle nazioni, tuttavia, data l’elevata frequenza con cui queste malattie si riversano sulla fauna selvatica e il loro potenziale impatto, rappresentano chiaramente una grave minaccia per la conservazione della biodiversità. Questa pressione si aggiunge agli stress del degrado degli habitat, dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici sulla fauna selvatica”. Inoltre non va affatto dimenticato come lo stesso virus SARS-CoV-2 che tutt’ora sta imperversando nel mondo deriva proprio da un virus che ha modificato le proprie caratteristiche genetiche partendo da animali selvatici e arrivando poi all’uomo.
Il primo punto all’ordine del giorno, secondo lo studio, riguarda una nuova politica alimentare che, guarda caso e di nuovo, deve puntare su una cultura alimentare più vegetale:”Nei paesi a medio e alto reddito, questi sforzi devono essere integrati da una transizione dalle proteine animali a quelle vegetali nella dieta umana, in modo che la riduzione della produzione di bestiame sia rispecchiata da un’equivalente riduzione della domanda di carne, latticini e uova”. L’articolo propone anche ulteriori e fondamentali strategie: “Le azioni preventive includono la riduzione delle dimensioni e della densità delle mandrie di bestiame nelle aziende agricole, la limitazione del trasporto di bestiame tra le aziende agricole e la limitazione dei contatti tra animali d’allevamento e specie selvatiche affini.”