Belluno, bambino “vegano”. La verità è un’altra
L’ennesimo caso di “bambino vegano” dichiarato dai giornali “in gravi condizioni di salute”. Questa volta a Belluno, da dove arriva una notizia che negli ultimi giorni è stata rilanciata da numerose fonti di informazione. Ma il caso si è presto sgonfiato: come spiega l’avvocato Carlo Prisco, da sempre impegnato in queste vicende, il bambino non era vegano ma neppure svezzato. «Ho sentito personalmente il dottor Giangiacomo Nicolini che ha partecipato in qualità di medico ospedaliero alla vicenda – dice a Vegolosi.it l’avvocato – e mi ha spiegato che, semplicemente, sebbene avesse un’età di circa due anni e mezzo, il piccolo assumeva esclusivamente latte materno. Latte, peraltro – prosegue Prisco – presumibilmente carente per motivi riconducibili a scelte alimentari materne che lo stesso sanitario ha rappresentato come “lacunose”. Ciò non in quanto vegana, bensì poiché scarsamente informata sui principi della corretta alimentazione».
Per di più, l’episodio risalirebbe alla scorsa primavera ma è stato raccontato solo oggi. E raccontato, sembrerebbe, in modo totalmente sbagliato: i giornali parlavano di “dieta vegana per un bambino di due anni, che finisce in ospedale con gravi carenze alimentare”. Ovviamente sul banco degli imputati ci son finiti subito i genitori, accusati di aver scelto una dieta esageratamente rigida per il proprio figlio. Di tutta questa storia, l’unico dettaglio vero è che il bambino, purtroppo, è finito in ospedale: ma la responsabilità non starebbe nell’alimentazione vegana scelta dai genitori (ma nemmeno questo è stato confermato), ma semplicemente nella loro scarsa informazione sui principi della corretta alimentazione.
L’urgenza è dunque duplice: occorre spiegare qual è la buona alimentazione – né la “migliore” né la “peggiore” – per i bambini più piccoli, ma anche capire come il regime alimentare vegano non sia dannoso nemmeno nei primi anni di vita. «Leggere nei titoli la parola “vegano” accanto a cronache di malattie o problemi di salute – dice ancora l’avvocato Carlo Prisco – richiama l’uso strumentale e sensazionalistico di termini come “immigrato” o simili, volto ad ingenerare nel lettore un timore aprioristico nei confronti di categorie specifiche (o presunte tali)».