Dieci squali tigre pescati nell’oceano e spinti sulla sabbia: l’obiettivo? Farsi un selfie. E’ successo nelle scorse ore nelle coste ad ovest dell’Australia, ma non è la prima volta. Nel corso di una battuta di pesca in Australia durata quattro giorni, i due pescatori Josh Butterworth e John Bonnitcha hanno catturato per divertimento dieci squali tigre, li hanno portati a riva e si sono immortalati in un selfie. “Facciamo un sacco di pesca d’altura e quando non è stagione di pesci marlin dobbiamo in qualche modo trovare altro per divertirci” è la sconcertante dichiarazione rilasciata da Josh, uno dei due pescatori.
Il piccolo di delfino
Nel febbraio di quest’anno alcuni ospiti di un resort a Santa Teresita, in Argentina, hanno trovato un cucciolo di delfino sulla spiaggia. Molti media italiani e non hanno riportato una versione dei fatti: invece di riportarlo immediatamente in mare, la folla si sarebbe accalcata per scattare delle foto attorno all’animale, poi morto per disidratazione e abbandonato sulla sabbia. Il piccolo delfino, tra l’altro, apparteneva a una razza speciale, La Plata, in via di estinzione: nel mondo ne rimangono solo 30mila. Possono vivere sino ai 20 anni in mare, ma appena sottratti all’acqua soffrono fino ad una repentina morte.
Altri quotidiani argentini, come il Clarín, hanno ricostruito invece una situazione del tutto diversa: il delfino era già morto quando è stato tirato fuori dall’acqua? In un video si vedrebbe un uomo tentar di rianimare il cucciolo, come racconta anche Ayelén Rodrìguez, una ragazza presente in spiaggia in quei momenti: “Abbiamo tentato di riportarlo in acqua, ma aveva già ferite molto gravi”. E’ possibile che la morte del delfino sia da attribuire alle reti da pesca: si calcola infatti che in Argentina muoiano tra i 500 e gli 800 delfini ogni anno a causa di questo problema. Le autorità non hanno potuto esaminare il corpo perché già sparito: restano solo le illazioni e la consapevolezza che per una foto le persone – letteralmente? – passerebbero sopra a un cadavere.
Il cigno in Macedonia
A marzo, invece, in riva al lago Ohrid in Macedonia (ricchissimo di fauna e, in special modo, di volatili acquatici), una donna ha pensato di farsi una foto in compagnia di un cigno: fin qui tutto normale, se non fosse che – evidentemente – l’animale non voleva saperne di stare immobile, mettersi in posa o scrutare l’occhio della fotocamera. Il risultato? La donna lo prende di peso e lo trascina: le notizie subito diffuse parlavano della morte del cigno dovuta violenza del gesto, ma alcuni siti in lingua macedone riportano una versione diversa: il cigno era vivo ma immobile perché rimasto ferito dal contatto con la donna. Sorge spontanea una domanda, allora: i sopracitati testimoni non si sono degnati di verificare?
Questi casi, purtroppo sempre più frequenti (e chissà quanti non balzano agli onori della cronaca), evidenziano ancora una volta il rapporto contraddittorio e di sopraffazione dell’uomo sull’animale: ma in nome di cosa?
Annamaria Manzoni, psicologa e psicoterapeuta da anni impegnata nell’analisi del rapporto uomo-animale, scrive nel suo libro in In direzione contraria (2009):
“Nulla di nuovo sotto il sole: l’uomo si è sentito autorizzato a rapirli dai loro luoghi d’origine, a separarli dal contesto familiare e sociale nel quale vivevano, a condannarli a stare lì per sempre a farsi osservare, disturbare, dileggiare da grandi e bambini: nessun dubbio lo ha sfiorato nel passato e nel presente sulla liceità del proprio operato, che giustifica con argomentazioni sempre molto variegate”.
Yuri Benaglio