Le crocchette di pollo e i succhi di frutta, i biscotti e le merendine, ma anche le cotolette di soia, i falafel vegetali, gli hamburger vegani. Cosa hanno in comune? Sono prodotti “ultra-trasformati”, ovvero alimenti ottenuti attraverso un articolato processo di lavorazione, ricchi in sale, zuccheri aggiunti e additivi, ma molto poveri sotto il profilo nutrizionale. Cibi dei quali le nostre dispense sono spesso piene perché facili e veloci da cucinare, ma dei quali sappiamo molto poco. Proviamo, allora, a scoprire qualcosa in più.
Cosa significa “ultra-trasformato”
Il termine “ultra-trasformato” risale ai primi anni Duemila: fu utilizzato per la prima volta da Carlos Monteiro, professore di Nutrizione all’Università di San Paolo, Brasile. Con una serie di studi sull’evoluzione dei comportamenti alimentari dei brasiliani a partire dagli anni Ottanta, Monteiro e il suo gruppo di lavoro si accorsero che, nonostante nel Paese fossero in calo i consumi di zucchero, continuava ad aumentare l’incidenza di malattie collegate come l’obesità e il diabete. La motivazione? I brasiliani acquistavano meno zucchero “puro”, ma molti più prodotti che di zucchero erano pieni: i prodotti industriali. Dagli studi di Monteiro è nata una classificazione, chiamata Nova, che costituisce oggi la base principale sulla quale si stanno orientando gli studi che indagano la correlazione tra il consumo di cibi sottoposti a lunghi processi di lavorazione e il nostro stato di salute. La Nova distingue gli alimenti in 4 categorie principali in base ai “processi fisici, chimici e biologici che interessano gli alimenti una volta separati dalla natura e prima di essere consumati o utilizzati nella preparazione di piatti”: gli alimenti non trasformati, come la verdura, la frutta, i semi, i cereali, le farine, i legumi, ma anche la carne e il pesce non lavorati; gli ingredienti culinari impiegati nelle preparazioni ovvero, sale, olio, zucchero, aceto; gli alimenti trasformati, come il pane, i formaggi, le carni lavorate, i legumi e il pesce in scatola, la frutta secca e i semi salati; infine, gli alimenti ultra-trasformati, i cibi pronti che si cuociono in poco tempo, sia vegetali che a base animale, gli snack, le patatine, le merendine, le torte confezionate, le bibite e i succhi di frutta. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Cosa li caratterizza? Il lungo processo di lavorazione e la presenza di additivi.
Additivo, sinonimo di ultra-trasformato
Sono più di 300 quelli autorizzati in Europa e servono a conferire agli alimenti che compriamo al supermercato determinate caratteristiche, quelle che col tempo hanno fatto sì che acquistarli diventasse sempre più conveniente. Sono gli additivi, le sostanze indicate in etichetta con la sigla E seguita da un codice. Gli additivi svolgono varie funzioni. Ci sono i conservanti, che permettono a cibi di durare più a lungo, i coloranti che ne migliorano l’aspetto rendendoli più invitanti, gli addensanti, gli emulsionanti e i gelificanti, che conferiscono la consistenza desiderata. Ma non solo. Ci sono gli additivi che agiscono sulla cosiddetta “palatabilità”, come gli esaltatori di sapidità e i miglioratori di aroma. Gli additivi sono anche quelle sostanze che permettono al prodotto di avere un buon rapporto qualità-prezzo perché facilitano la produzione su larga scala agendo sull’ottimizzazione dei processi industriali.
Un’altra caratteristica dei cibi ultra-trasformati è anche l’utilizzo di sostanze, come la caseina, il lattosio o le proteine della soia, che servono a fare “stare insieme” ingredienti che nella cucina di casa non si usano. Succede con gli scarti di lavorazione della carne rimessi insieme con gli additivi e usati per produrre cibi “low cost”, sia sotto il profilo del prezzo che della qualità nutrizionale, come ben racconta anche per immagini il documentario francese L’invasione del cibo spazzatura, di Martin Blanchard e Maud Gangler.
Ausiliari tecnologici, ci sono ma non si vedono
E poi, ci sono gli “ausiliari tecnologici”. Si tratta di sostanze, come gli enzimi, che vengono aggiunte durante il processo di produzione perché funzionali alla lavorazione, ma poi assenti nel prodotto finito. Il caso più noto è quello dei chiarificanti usati per rendere più trasparente (e quindi più gradevole alla vista) il vino, e che in molti casi sono di origine animale, come l’albumina. O delle sostanze “deschiumanti” usate per i succhi di frutta (eliminando la schiuma dal succo lo rendono più facilmente imbottigliabile e più gradito al consumatore). Anche la frontiera degli ausiliari tecnologici è in continua espansione. Qualche esempio? L’impiego di particolari proteine animali estratte dal sangue di manzo e poi inserite nei preparati di carne, che servono a trattenere l’acqua e a rendere il prodotto più compatto. O la transglutaminasi, un enzima che, legando insieme le proteine, agisce come una vera “colla” per la carne e per il pesce permettendo di rimettere insieme pezzi di carne separati meccanicamente per ottenere un prodotto nuovo più compatto e lavorabile, come i bastoncini di pesce. E della quale, se non c’è traccia nell’alimento finito, non ci sarà traccia neanche in etichetta.
Vegano, ma non più sano
La questione dell’ultra-trasformazione e dell’impiego di additivi e ausiliari tecnologici riguarda molto da vicino anche gli alimenti a base 100% vegetale. Se, infatti, leggere le etichette può aiutare a comprendere se in un prodotto siano stati usati additivi di origine animale, ed eventualmente evitarli (cosa che non si può fare, invece, come abbiamo visto con gli ausiliari tecnologici), il problema dell’ultra-lavorazione del cibo al fine di renderlo più “palatabile”, più economico e più veloce da preparare interessa anche tutti quei prodotti confezionati spesso indicati proprio “per vegetariani e vegani”: burger, polpette, creme, formaggi vegetali. “Gli ultra-processati vegani possono esserlo ancora di più di quelli di origine animale», spiega Marialaura Bonaccio, ricercatrice di Epidemiologia Molecolare e Nutrizionale. “Se escludere
di mangiare pesce o carne comporta il ricorrere a prodotti vegetali ma molto lavorati, vegano non è affatto sinonimo di più sano”. Il perché lo dicono gli studi condotti fino a qui.
Gli ultra-processati fanno male?
Proprio la dottoressa Bonaccio, con l’equipe di ricerca del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed di Pozzilli ha pubblicato nel 2020 sull'”American Journal of Clinical Nutrition” il primo studio italiano che indaga gli effetti sulla salute del consumo di cibi ultra-trasformati. La ricerca è stata condotta su oltre 22mila cittadini partecipanti al Progetto Moli-Sani a partire dalla classificazione Nova di Monteiro: analizzando le abitudini alimentari delle persone e seguendo per anni le loro condizioni di salute, i ricercatori Neuromed hanno osservato che chi consuma un’elevata quantità di cibo ultra-processato presenta un aumento di rischio di morte per qualsiasi causa del 26% e del 58% per cause cardiovascolari. Conclusioni molto simili a quelle di altri studi similari realizzati negli ultimi anni sia in Francia che in Spagna.
Il principale imputato di questo impatto negativo degli ultra-trasformati sulla salute è l’eccesso di zucchero, ma non solo. “Le ipotesi allo studio sono diverse: tra le prime c’è sicuramente il contributo nutrizionale assolutamente sbilanciato di questi cibi, ricchi di grassi saturi, zuccheri e colesterolo. Però – spiega Bonaccio, prima autrice dello studio – ci sono anche ipotesi che puntano l’attenzione, per esempio, sul packaging dal momento che questi cibi possono essere in confezioni che contengono sostanze potenzialmente dannose, come ftalati e fenoli, che migrerebbero nel cibo: un’esposizione molto lunga a questi alimenti potrebbe avere effetti potenzialmente negativi sulla salute. Un’altra ipotesi è legata alla presenza degli additivi chimici. Un’altra ancora è quella secondo la quale sarebbe l’intera lavorazione industriale a modificare la struttura degli alimenti con un impatto sull’organismo ancora tutto da studiare”.
Lo studio Moli-Sani ha indagato la prima ipotesi, quella nutrizionale: i risultati ottenuti, però, si spiegano solo in parte sulla base del mero profilo nutrizionale degli ultra-processati lasciando aperti, dunque, tutti gli altri campi di studio. In attesa che la scienza approfondisca, l’invito è sempre lo stesso: “Preferire alimenti freschi. L’ideale sarebbe ridurre al minimo il consumo di questi alimenti ripensando la propria alimentazione. È una cosa che richiede uno sforzo personale, ad esempio riservando del tempo alla preparazione del cibo con tecniche di conservazione casalinghe come il congelamento. Ma basterebbe anche sostituire gli snack confezionati o i succhi di frutta con della frutta fresca”.