Nonostante oggi siano una realtà consolidata in ogni parte del mondo sviluppato, gli allevamenti intensivi (detti anche industriali) non sono sempre esistiti. Anzi, la loro nascita è piuttosto recente e si fa risalire ai primi anni del Novecento. Grazie a quanto riporta il sito Factoryfarming.com possiamo fare insieme un breve excursus attraverso la storia di questa attività del tutto particolare che, sebbene coinvolga esseri senzienti, è comunque sottomessa in tutto e per tutto alle logiche della produzione industriale.
Anni ’20: nasce “per sbaglio” il primo allevamento industriale
Costa orientale degli Stati Uniti, 1926. Un piccolo allevatore di bestiame della penisola di Delmarva riceve per errore un carico di 450 pulcini; invece di restituirne una parte, decide di tenerli tutti nella sua piccola fattoria, allestendo uno spazio di fortuna per il loro sostentamento. Sorprendentemente, quasi tutti i pulcini sopravvivono e si riproducono velocemente, tanto che in meno di 10 anni il loro numero arriva a toccare i 250 mila esemplari. Questi numeri, naturalmente, sono del tutto irrisori se confrontati con quelli degli allevamenti intensivi odierni, ma bisogna tenere conto che stiamo pur sempre parlando degli inizi del secolo scorso, quando le tecniche di allevamento erano ancora artigianali e gli spazi da dedicare a questa attività erano ben più ridotti rispetto a oggi. Ma certamente il seme degli allevamenti intensivi era stato piantato.
Foto: CIWF Italia
Anni ’60: gli allevamenti intensivi si moltiplicano grazie all’uso di antibiotici
Anche se il primo allevamento intensivo risale agli anni ’20, bisognerà comunque aspettare gli anni ’60 perché questo tipo di attività si diffonda e prenda piede in diverse parti del mondo. Il fatto che ciò avvenga in questo preciso periodo storico non è un caso, ma il frutto dell’aumento della produzione di antibiotici e della loro diffusione su larga scala: è grazie all’utilizzo massiccio di questi farmaci, infatti, che diventa possibile stipare un gran numero di animali in spazi ristretti preservandoli dalle malattie. Da questo momento i numeri degli allevamenti industriali cominciano ad assomigliare sempre di più a quelli odierni anche se il dilagare delle patologie, nonostante l’impiego di antibiotici, resta comunque per anni una problematica importante in questi ambienti.
Non più solo polli
L’allevamento industriale non tarda a estendersi ad altre specie animali: siamo negli anni ’80 quando Wendell Murphy, prima di diventare senatore di uno stato del Nord della Carolina, allarga l’allevamento intensivo ai maiali su imitazione di quanto avvenuto fino ad allora negli allevamenti avicoli. Non trascorre molto tempo prima che questa attività prenda piede e si diffonda, tanto da far meritare a Murphy il titolo di “re della carne di maiale”. I risultati di questo tipo di produzione non si fanno attendere, e l’allevamento intensivo negli Stati Uniti inizia a coinvolgere anche i bovini, allevati sia per la produzione di carne che per quella del latte. Da questo momento in poi gli allevamenti intensivi si ingrandiscono e si diffondono a macchia d’olio in diversi paesi del mondo, fino a raggiungere l’estensione odierna.
Foto: Essere Animali
I numeri dell’allevamento intensivo ieri e oggi
Nel 1950 una mucca produceva in media 665 litri di latte all’anno, oggi ne produce più di 2.320. Oggi un maialino appena nato pesa circa 1 chilo, ma in sei mesi riesce a toccare i 120 chilogrammi di peso; 50 anni fa, questo stesso incremento di massa veniva raggiunto nel doppio del tempo. Fino a pochi decenni fa, i polli impiegavano 70 giorni per raggiungere il peso ideale per la macellazione, oggi vengono macellati a 47 giorni di vita con un peso superiore del 67% rispetto a quello del 1950.
Ma anche i numeri dell’allevamento intensivo odierno sono sorprendenti (fonte CIWF Italia): ogni anno vengono allevati 70 miliardi di animali; di questi, la metà all’interno di un allevamento intensivo. A livello globale il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina e il 60% delle uova vengono prodotti in allevamenti intensivi. E in Italia la situazione non è migliore: l’85% dei polli e il 95% dei suini sono allevati in allevamenti industriali e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo.
Sempre CIWF Italia riporta, a questo proposito, che la produzione di cibo negli allevamenti intensivi è tra le principali cause del surriscaldamento globale: ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà dell’estensione della Gran Bretagna per coltivare mangime per animali e allevare bestiame, che produce metano che si diffonde nell’atmosfera. In più, l’allevamento intensivo è correlato anche alla mancanza di cibo nei paesi poveri: un terzo della raccolta mondiale di cereali viene utilizzato per alimentare il bestiame negli allevamenti; se fosse utilizzato per il consumo umano, invece, sfamerebbe circa 3 miliardi di persone.