Burger vegano, affettato vegetale, panettone vegan, wurstel 100% veg: queste denominazioni, negli ultimi mesi, hanno creato una vasta polemica su vari fronti e gli ultimi ad intervenire sulla vicenda, in ordine di tempo, sono gli associati a SlowFood, la più importante realtà italiana (e internazionale) che si occupa di “ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi”.
Che cosa dice SlowFood sui burger vegetali?
In un articolo apparso online sul portale di SlowFood possiamo leggere: “In questa epoca di post-verità, dove le parole sono svuotate del proprio significato, possiamo scegliere tra una quantità considerevole di cibi che ne scimmiottano altri: salami vegani, hamburger di soia, arrosti di tofu e spiedini di seitan […]. Ma ogni volta che mangiamo un salame vegano – continua Jacopo Ghione autore dell’articolo, voltiamo le spalle alle nostre tradizioni e alla nostra cultura gastronomica, e ci inganniamo.”
Contro che cosa si alza la polemica di SlowFood, quindi? Non contro il prodotto in sé, questo è abbastanza chiaro, se non per il fatto che si tratta sempre di prodotti confezionati che non fanno onore alla tavola né alla salute, bensì contro la denominazione in sé, cosa che anche l’associazione dei produttori di carne dell’Unione Europea, (CLITRAVI), aveva sottolineato lo scorso dicembre 2016. “Nonostante il fine nobile che riconosciamo, – si legge nell’articolo – nel promuovere i consumi di vegetali, pensiamo però che l’hamburger vegano (sic!) sia una presa in giro. È dannoso per gli allevatori che con il loro lavoro si impegnano per promuovere un prodotto di qualità ed è ingannevole per i consumatori che involontariamente prestano il fianco a questi trucchi di marketing individuati dall’industria alimentare, pronta a cavalcare l’onda della moda dei prodotti veg.”
SlowFood appoggia il vegan?
Va ricordato che SlowFood, attraverso le parole del suo presidente Carlo Petrini e di Piero Sardo, Presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, ha più volte sostenuto la necessità di limitare il consumo di carne e tornare ad una filiera produttiva di buon senso e sostenibile, ma non di certo sposano l’idea di un mondo senza allevamenti, carne e derivati animali.
Qui la questione è vecchia e complessa: quella dei “nomi”.
Il nome cambia la sostanza?
Purtroppo la premessa sembra sempre essere una: il consumatore si può ingannare facilmente. Chi compra non riuscirebbe a distinguere e a dare il giusto riconoscimento a chi lavora nella filiera della carne o dei formaggi. Ma è davvero così?
Chi legge su una busta di affettato di mopur la dicitura “Affettato vegetale” è davvero portato a pensare che assaporerà un prodotto identico ad una bresaola della Valtellina? Un salame vegano può davvero trarre in errore chi girando per il supermercato sta cercando un cacciatorino di origine controllata? Evidentemente no.
Quello che può accadere, invece, è che il consumatore sia incuriosito dall’alternativa vegetale e che, ben conscio di quello sta mettendo nel carrello anche grazie all’opera di educazione di realtà come SlowFood che invitano sempre a leggere le etichette, provi un prodotto diverso. Inoltre va ricordato che nessuno dei prodotti a base vegetale è mai esposto vicino a quelli “tradizionali” bensì in settori appositi, ben segnalati da cartelli, se mai il consumatore proprio non riuscisse ad individuare le differenze.
L’inganno non esiste
Non era forse decisamente più ingannevole la dicitura “Olio vegetale” che comprendeva anche oli di palma, cocco e colza senza che il consumatore ne venisse informato, scoprendo solo nel 2014 (dopo l’obbligo di specificare la natura dell’olio vegetale in etichetta) che sono una fonte importante di grassi saturi, dannosi per la salute? Forse è proprio per questo che la legge è intervenuta a salvaguardia di chi acquista. L’inganno, quindi, non esiste, ma esistono delle alternative di consumo che sono il segnale di una richiesta sempre maggiore da parte dei consumatori.
SlowFood parla anche di “moda vegana“: non è successa la stessa cosa per il tanto amato sushi? Tranci di pesce crudo già comodamente assemblati in vaschette non facevano di certo capolino nel banco pescheria della distribuzione fino a pochi anni fa: la tendenza a voler assaggiare questa specialità asiatica ha portato il mercato a creare l’offerta. Che il consumatore ami il sushi da sempre e che finalmente lo possa trovare al supermercato o che ne sia rimasto invaghito per motivi di “trend” poco importa. La stessa cosa vale per i prodotti a base vegetale: ci sono consumatori che da 40 anni (o più) mangiano vegetariano e vegano e finalmente trovano prodotti a portata di mano, ci sono quelli che lo sono da 4 mesi (o meno) e troveranno solo più facile decidere di mangiare un panetto di tofu o un wurstel vegetale, certamente senza il dubbio che, forse, si tratti di gorgonzola, o di un wurstel a base di maiale.