Vegolosi

Sculture con la plastica buttata nei mari: l’arte che salva gli oceani

L’oceano è in pericolo. Entro il 2050 ci sarà più plastica nei mari che pesci. Ogni anno produciamo 300 miliardi di grammi di rifiuti in plastica, di cui solo una minima frazione viene riciclata. La maggior parte di questa spazzatura finisce proprio nei mari e negli oceani dove attualmente minaccia 700 specie marine, ufficialmente a rischio estinzione.

Ma mentre come esseri umani abbiamo chiaramente dimostrato di avere il potere di distruggere e degradare la flora e la fauna del nostro pianeta, è invece raro che riusciamo a dimostrare di avere il potere di preservare e proteggere i nostri corsi d’acqua. l’organizzazione The Washed Ashore Project ci è riuscita: raccoglie i rifiuti dalle spiagge principalmente dell’Oregon e ricrea con questo materiale di recupero (soprattutto plastica) bellissime sculture di animali marini allo scopo di ammonire circa i rischi che corrono queste creature e proteggere i nostri oceani e il loro habitat.

Angela Haseltine Pozzi, la fondatrice del progetto, ha iniziato a lavorarci nel 2010 dopo essersi resa conto dell’incredibile quantità di plastica e di altri rifiuti che si stavano accumulando sulle spiagge di Bandon, Oregon. Negli ultimi sei anni, Angela e la sua squadra hanno recuperato tonnellate di plastica e altri rifiuti dalle spiagge del Pacifico per convertirli in pezzi d’arte per le loro mostre informative. In totale sono state create 66 sculture dagli oltre 38.000 grammi di immondizia recuperati dai litorali su e giù per la West Coast, sei delle quali esposte allo Smithsonian.

Il Washed Ashore sta combattendo duramente per far comprendere quanti danni l’inquinamento da plastica sta apportando alla vita marina e all’ecosistema, ma non è da sola in questa importantissima battaglia. Il diciannovenne Boyan Slat ha progettato una barriera sottomarina per circoscrivere la spazzatura che devasta gli oceani e rimuoverla con facilità; l’associazione americana Bureo utilizza vecchie reti da pesca abbandonate per creare skateboard e occhiali da sole all’ultima moda. Iniziative importanti che denotano quanto il problema sia drammaticamente grave.

The Pacific Trash Vortex

Sulle cartine geografiche non viene segnalata e dal satellite non è visibile, ma nell’Oceano Pacifico esiste un’isola grande quanto il Texas: è il Pacific Trash Vortex, un enorme ammasso di rifiuti accumulatisi a partire dagli anni ’50 trasportati dalle correnti verso un unico punto, situato tra il 135o e il 155o meridiano ovest e il 35o e il 42o parallelo nord (tra le Hawaii e la California).

Questo enorme agglomerato di spazzatura è composto per l’80% di plastica e il restante 20% di detriti non biodegradabili di varia natura e provenienza che, trascinati dalle correnti, si sono accumulati in un’area oceanica di circa 15 milioni di km quadrati (un’area vasta come Spagna e Portogallo messi assieme) e profonda 30 metri, per un peso complessivo di oltre 100 milioni di tonnellate.

La maggior parte dei rifiuti è costituita da oggetti contenuti nei container trasportati dalle navi cargo, che talvolta cadono in mare. Alcune di queste dispersioni sono diventate famose, come quella del 1990 in cui la Nike ha disperso scarpe da ginnastica che sono state ritrovate nei tre anni successivi sulle spiagge di alcuni stati americani. Un altro celebre incidente ha riguardato papere di plastica da bagno. In questo caso, però, a parte il danno ambientale causato dalla dispersione delle papere è stato utile per lo studio delle correnti oceaniche su scala globale, integrando le informazioni già in possesso degli esperti.

In questi anni si sono costituite diverse squadre d’azione per la pulizia del Pacific Trash Vortex, ma la vastità dell’area non consente di ottenere risultati nell’immediato. Il rischio è ancora più serio perché “la plastica non è biodegradabile e con il passare degli anni i detriti si disgregano in piccoli pezzettini fino a formare una specie di massa di sabbia plastificata che pesci e uccelli marittimi confondono facilmente con del cibo” afferma Greenpeace.

Serena Porchera