Non si tratta di una “forzatura vegana”, premettiamolo. Ma queste poche righe (poche, è ovvio, considerando l’ampiezza media dei capitoli dell’epopea di Ahab e compagni raccontata dal marinaio d’esperienza Ismaele) sono una sorpresa da rileggere più volte. Questo capitolo è la riprova del fatto, se ancora ce ne fosse il bisogno, che il tema del “chi/che cosa mangiamo”, del nostro rapporto con altri esseri viventi di cui ci nutriamo, sull’incoerenza che sta alla base dei nostri comportamenti spesso dettati dalla volontà di preservarci, sono antichi come lo sono i dubbi dell’uomo sin da quando è stato in grado di pensare sé stesso.
Che cosa dice Melville nel capitolo 65, quindi?
Ecco la storia: Stubb, il secondo ufficiale di bordo, ha concluso con successo uno dei numerosi episodi di pesca al capodoglio che fanno da puntello al libro. Il grande cetaceo (che non è Moby Dick), ormai privo di vita, giace in acqua legato alla baleniera Pequod e deve essere portato a bordo. E’ notte e gli uomini dell’equipaggio lavorano senza sosta per portare a bordo il grande pesce. Stubb decide intanto di festeggiare la caccia regalandosi una cena notturna a base di bistecca di balena, è l’unico sulla nave a volerla mangiare, e dopo averne ottenuto un pezzo dai marinai, chiede al cuoco di bordo di cucinarla prontamente. Lanuggine, così viene soprannominato l’anziano cuoco che lavora a bordo del Pequod, nonostante la stanchezza si mette all’opera in modo che il volitivo Stubb possa godersi il suo piatto preferito prima di subito. Il capitolo 64, si conclude con una riflessione del cuoco: “Per Dio, preferirei che la balena mangiasse lui – dice riferendosi a Stubb – piuttosto che lui la balena. Che io sia benedetto se non è più squalo lui di tutti gli squali”.
Ed ecco il capitolo 65: l’ipocrisia sul mangiar carne
Ed è qui che parte la riflessione di Melville: la società civile, quella che sta fuori dalle baleniere, trova abominevole che un uomo mangi un animale appena ucciso e lo faccia, come fa lo stesso Stubb, alla luce di una lanterna alimentata con lo stesso olio prodotto da quella creatura marina insieme terrificante e grandiosa. La verità è che si tratta solamente di una grande ipocrisia, infatti, scrive Melville: “Il primo uomo che uccise un bue fu considerato un assassino, e forse fu impiccato; se fosse stato giudicato da un tribunale di buoi lo sarebbe stato certamente; e di sicuro se lo meritava – continua l’autore americano- come se lo merita ogni assassino”.
Insomma, chi può giudicare chi? Che cosa è “abominevole” e che cosa non lo è? Dove sta il confine dell’etica, chi è il giudice? E Melville continua con la frase che abbiamo letto all’inizio dell’articolo:”Le folle di bipedi vivi che fissano le lunghe fila di quadrupedi morti. E chi non è cannibale?”. Insomma: perché la società gourmand (come la definisce Ismaele) considera terribile mangiare carne di balene alla luce dell’olio della stessa, ma non alza una sola parola verso chi taglia il roast-beef con un coltello il cui manico è fatto dell’osso dello stesso manzo?
Infine Melville alza il tono e rende ancora più chiara la sua posizione spiegando che, nel giudizio finale, quello divino, sarà decisamente più fortunato l’isolano che, per sopravvivere alla carestia abbia messo sotto sale un missionario, piuttosto che un “gourmand civilizzato e illuminato che inchiodi le oche a terra e col paté de foie gras” si goda il loro fegato tumefatto.”.
Signori e signore, Herman Melville: 1851.