Vegolosi

Nell’orto di una perdigiorno: alla scoperta del “giardino” di Pia Pera

Riuscire a vivere come nel proprio libro preferito di bambina. Quanti possono dire di aver avuto tale fortuna? Forse, per capire cosa è stato il “giardino” nella vicenda umana e letteraria di Pia Pera bisogna partire da qui. Da ciò che racconta lo scrittore Emanuele Trevi in Due vite (Neri Pozza, 2020), il libro che nel 2021 gli è valso il Premio Strega e che racconta proprio della vita di Pia Pera, insieme a quella di un altro scrittore, Rocco Carbone.

Scrittrice, grande esperta e traduttrice di letteratura russa (celebre la sua traduzione dell’Onegin di Puškin) e, nell’ultima parte della sua vita, “giardiniera” dedita all’orto ricostruito nel podere di famiglia nella campagna toscana, a Pia Pera si devono pagine bellissime sul rapporto con la terra, sulla vita all’aria aperta, sul senso dell’esistenza che proprio nel “giardino” trova, insieme, trasfigurazione letteraria e compimento di vita, in un gioco di specchi e di rimandi costanti tra scrittura e coltivazione. Il libro di bambina, quello di cui parla Trevi, è Il giardino segreto, di Frances Hodgson Burnett, che Pia Pera lesse da piccola e poi tradusse dall’inglese da adulta. È la storia di una ragazzina dalla triste storia familiare che scopre un giardino nascosto e, nel prendersene cura, trova la felicità. “È lì che ho cominciato a sognare di poter fare ritornare in vita quanto, intorno a me, pareva morto a paralizzato. Si sono formati su quelle pagine i miei sentimenti […], la malinconia per il podere abbandonato, la speranza di farlo rinascere”, racconta la scrittrice in L’orto di un perdigiorno, il primo dei suoi libri “naturali”. Una lettura d’infanzia dimenticata, dunque, che quasi inconsapevolmente, finirà per agire come una sorta di “canovaccio” nella vita della scrittrice.
Ed è così che Pia Pera, a un certo punto della vita, lascia la casa di Milano e i viaggi in giro per l’Europa per fare ritorno al podere di famiglia alle pendici del monte Pisano, ormai abbandonato, per ridargli vita. L’orto di un perdigiorno (Ponte alle Grazie, 2003) è il libro nel quale annota, come in un diario, il suo apprendistato da ortolana: non certamente un manuale per “imparare a fare l’orto”, ma il racconto, stagione dopo stagione, di chi, senza nulla sapere, tutto impara facendo.

Un’idea di giardino

L’idea che Pia Pera ha in mente quando mette mano – letteralmente – nella terra del podere di famiglia è quella che aveva incontrato in un altro libro e che l’aveva affascinata, La rivoluzione del filo di paglia, del giapponese Masanobu Fukuoka: l’agricoltura della non-azione. Un approccio non interventista, nel quale è la natura a fare il suo corso. Per la scrittrice un traguardo al quale anelare, che passerà tuttavia da anni di duro lavoro impiegati a far tornar fertile la terra toscana di casa. Eppure, è in quell’anelito ispirato dal maestro giapponese che Pia Pera troverà una delle prime lezioni impartitegli dall’orto: “Non azione, non cultura, consapevolezza che nulla di quanto ha realizzato l’uomo ha valore ai fini della felicità. Fukuoka lo sa. Trova la felicità restando vicino alla natura“, scrive sempre ne L’orto di un perdigiorno. E, ancora: “Anche senza attuare la non-azione in modo radicale, probabilmente il mondo sarebbe un posto migliore se, ogni volta, prima di lanciarsi in un’azione, ci si chiedesse: e se si provasse a non farlo? […] Quanta ricchezza, in questo non fare. Quanta conservazione di risorse e possibilità di vita per chi verrà dopo di noi. […] Sarebbe un non fare finalizzato a un fare migliore, consapevole».

Ecco, dunque, il “Maestro orto” entrare in azione: su quanto la terra, i suoi cicli vitali, il prendersene cura possano essere di insegnamento ben oltre la riuscita di un raccolto, l’apprendista Pia Pera lo comprende subito. L’orto-giardino, racconterà la scrittrice, è per antonomasia il luogo nel quale si impara facendo, ma non solo: “Era la prima delle attività da me intraprese, di cui non avevo trovato il sistema di aggirare nemmeno superficialmente le difficoltà. Dopo anni di vittorie facili e probabilmente illusorie – spiegherà poi – mi ero imbattuta in un compito, e quindi in un maestro, che metteva spietatamente in luce le manchevolezze del mio carattere, ma che proprio per questo mi avrebbe insegnato come affrontarle”. Ecco perché, come dirà poi Emanuele Trevi nel tracciare il profilo della scrittrice: “Nulla è più distante da Pia della stolida immagine di una guru ecologista, che parla come qualcuno che ha imparato il gioco e lo spiega agli altri. I suoi libri vibrano della salutare, rivelatrice energia dell’errore“.

L’orto-giardino, luogo di felicità e nutrimento

Ma l’orto – e il giardino, che per Pia Pera fanno tutt’uno – è anche il luogo della felicità. Non è un caso che la parola “felicità”, quella “troppo intensa”, che trabocca senza poter essere contenuta come quando ci si trova a contemplare “il rosso rubino delle amarene contro il verde scuro delle foglie” si trovi già nella prima riga di L’orto di un perdigiorno. Per molti anni, poi, Pia Pera tenne una rubrica su “Gardenia”, rivista dedicata al verde, per la quale scelse proprio il titolo Apprendista di felicità. Qui, nel marzo del 2008, racconta della visita al podere del fotografo Andrew Lawson, che avrebbe ritratto l’orto, e della sua preoccupazione che quel giardino, così distante dalle geometrie classiche degli orti tradizionalmente intesi, potesse risultare poco interessante all’occhio dell’artista. Così non fu e scrive Pia Pera: “Ero riuscita in qualche modo a comunicare come avevo inteso il giardino: un luogo di semplicità estrema, capace di trasmettere un senso som- messo di felicità. Un luogo dove, prima di tutto, si sta bene, dove le consuete manie giardinesche, le collezioni botaniche, le potature perfette, i prati immacolati, sono decisamente assenti”.

Il tema della felicità nella natura, strettamente intrecciato a quello della non-azione, sarà centrale anche in un altro libro della scrittrice toscana, Contro il giardino. Dalla parte delle piante (Ponte alle Grazie, 2007). È la raccolta di un lungo scambio epistolare con il paesaggista e botanico Antonio Perazzi dal quale emerge una vera e propria “poetica” della cura del paesaggio e del patrimonio botanico e del giardino come luogo privilegiato nel quale rinnovare il dialogo con la natura. In una delle lettere, Pia Pera spiega che cos’è per lei «”l giardino di cui ci occupiamo in prima persona, un giardino che riconnette alla vita, quindi anche al nostro nutrimento, non solo all’esperienza estetico-filosofica”. Un luogo capace di trasmettere “un senso di pienezza e di gioia silenziosa. Provare questa gioia – scrive ancora – è un’esperienza fortissima, può avere l’efficacia di un vaccino spirituale”.

Da queste riflessioni era nato un altro dei progetti ai quali Pia Pera teneva moltissimo, il sito internet Orti di pace, per la promozione di orti e giardini nelle scuole e che ancora oggi rappresenta un punto di scambio e confronto sui temi a lei cari. “È questa, a mio parere – scriveva ancora a Perazzi – l’emergenza del nostro tempo, quella a cui dovrebbe rispondere anche il giardino, che deve prima di tutto sanare una ferita, riconnettere l’uomo alla natura nel senso primario del termine, di corpo a corpo in cui l’uomo coltiva le piante da cui trae nutrimento, in tutti i sensi”.
Ed è, chiaramente, quello del nutrimento un altro degli insegnamenti impartiti dal “Maestro Orto” alla scrittrice: è occupandosi di lui e chiedendosi cosa vuole piantare che Pia Pera si interroga anche su cosa le piaccia realmente mangiare. “Più conosco le erbe spontanee – scriverà a un certo punto in L’orto di un perdigiorno – più si accresce in me la consapevolezza di vivere immersa in un ambiente capace di nutrirmi”.

La coltivazione come scrittura

Prima che ortolana, tuttavia, Pia Pera è scrittrice, e lo rimarrà fino alla fine. Chiaramente la sua poetica dell’orto trova enunciazione nella forma espressiva a lei più congeniale, quella della scrittura. Ma il rapporto tra l’orto e i libri va ben oltre l’uso dei secondi come mezzo per raccontare “l’epifania” del primo. Lo spiega bene Emanuele Trevi in Due vite: “E Pia scrive quello che vive con una meravigliosa congruenza di parole e cose, il terreno considerato come una pagina e la coltivazione come scrittura”. Nel ricco ritratto biografico della scrittrice contenuto nella Enciclopedia delle donne, Lara Ricci scrive: “Il giardino è per lei un luogo di filosofiche scoperte, di epifaniche sorprese, di estatica bellezza: un campo di luminosa libertà che esplora come un romanziere fa coi personaggi e il loro tempo, come un poeta l’essenza delle cose“.

Il giardino ancora non lo sa

In questo senso, il richiamo, immediato, è alla poetessa “giardiniera” per antonomasia, Emily Dickinson. È la stessa Pia Pera a dichiararlo nell’ultimo, struggente, suo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016). Qui racconta ancora della vita al podere e dell’orto, ma anche della malattia, la sclerosi laterale amiotrofica che, a poco a poco, le stava togliendo libertà di movimento e per la quale morirà, poco dopo l’uscita del libro, nel 2016, a 60 anni. Il titolo è preso da una poesia di Emily Dickinson, appunto, I haven’t told my garden yet: verrà un giorno, scrive la poetessa americana, in cui il giardiniere non terrà fede all’appuntamento consueto, ma questo il giardino non lo sa. Proprio come il giardino di Pia Pera che, benché improntato alla non-azione dell’uomo, quasi come se la figura del giardiniere non fosse neanche contemplata, non sa ancora che tra poco non ci sarà più chi si prenderà cura di lui.

Al giardino ancora non l’ho detto è un libro sul “giardiniere e la morte”, come suggerisce la stessa Pia Pera. L’ultimo capitolo, il più difficile e non privo di rabbia e dolorosa accettazione della fine imminente, di chi – racconta Trevi – ha saputo recuperare alla consapevolezza “questo potere cieco di pura persistenza, questo ritmo stagionale di espansione e contrazione, riconoscendosi per questa via intuitiva in ogni fenomeno della vita cosmica, non considerandosi molto diverso da un cane randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino”. Una strada che porta alla salvezza e che “conduce a qualcosa che è insieme metafisico e fisico al grado supremo: il giardino”.

Rimane, come immagine di chi ha saputo percorrere fino in fondo questa strada, quella con la quale si chiude L’orto di un perdigiorno: al termine del susseguirsi di quattro stagioni spese a imparare la lezione dell’orto, “adesso, invece – scrive Pia Pera – sono ben provvista anche per l’inverno. Ho la dispensa piena”.