Ieri pomeriggio ero in giro per un appuntamento di lavoro e come mi capita praticamente sempre, ho preso la metropolitana per spostarmi in città. Arrivata ai tornelli, poco prima dell’uscita e con il telefono in mano, ho deciso di fare un piccolo esperimento sul campo, una sorta di osservazione empirica. Ho impostato sul mio telefono il timer: 1 minuto. Da quel momento avrei contato tutti i cappotti e giacconi con inserti di pelliccia sul cappuccio che avrei visto indossare dalle persone sul mio percorso. Non cammino particolarmente piano, anzi, sono un tipo abbastanza ansioso (parecchio direbbero i miei colleghi) e ho sempre timore di arrivare tardi, perciò in quel lasso di tempo sono riuscita ad uscire dai fornelli, fare tre rampe di scale e arrivare a percorrere circa 200 metri della mia strada. Ho contato 28 giacche e 3 pellicce.
Questa settimana abbiamo rilanciato l’indagine di Animal Equality sulla commercio di pelle e pelo di cane e gatto. Alcune immagini sono particolarmente strazianti e non tanto, o meglio non solo, quelle cruente del momento in cui questi animali vengono uccisi e poi privati della pelle. Per me, come credo per moltissimi altri, la pena più forte è vederli aspettare la fine in quelle gabbie: quello sguardo lo conosce benissimo chi ha la fortuna di avere in casa un cane o un gatto. Dove sta la riflessione, quindi? Non c’è. Solo non capisco davvero cosa ci sia dietro la scelta di comprare un capo che prevede inserti di pelliccia, non parliamo poi della pelle e delle pellicce.
Sapete, la linea editoriale di Vegolosi.it è sempre stata (e sempre sarà, almeno fino a che ci sarò io al timone) quella di una completa apertura nei confronti di tutti, soprattutto delle scelte di chi non è né vegetariano né vegano. Parlare “solo fra di noi” non è utile, secondo me, per nulla. Devo ammettere, però, che nonostante il tentativo di essere sempre liberale, sulla questione legata all’abbigliamento devo cedere all’assoluto e più rigoroso integralismo: non posso concepire che nel 2015 ci sia ancora ignoranza sul come quel bordo di pelo arriva a cingere, come una sorta di corona abbassata di un re deposto, teste di persone normali, con un briciolo di umanità nel cuore. Non possiamo sapere, questo lo ha ben spiegato Animal Equality, se quel pelo sia di volpe, di cane, di gatto, di ermellino o di coniglio e, devo ammetterlo, non me ne frega un bel niente. Quella cosa lì è inutile e questo la rende uno schiaffo a tutto ciò che c’è di morale e giusto, a tutto quello che crediamo di professare nei confronti del prossimo e persino nei confronti dei nostri animali domestici. Come conciliare il cane al guinzaglio, il gatto sul camino, il coniglietto nelle nostre case con quel bordo di pelle nell’armadio?
Lo so, lo stesso concetto di inutilità potrebbe (dovrebbe, anzi deve) essere applicato al mangiare carne e derivati animali, lo so. Ma in questo caso, culturalmente e a mio giudizio, il processo mentale per arrivare a fare quello che la psicologa Melanie Joy definisce “collegamento” è più lungo. Non so quanti di voi che leggono sono nati vegetariani o vegani: forse pochi. Sapete bene che il momento in cui scatta il famoso “click” nella testa, non è risultato di un processo facile o meglio, non si arriva facilmente a quella soglia, nemmeno oggi nel 2015. Ma su pelli e pellicce, che diamine, non posso crederlo. Apriamo gli occhi e il cuore. Non è questione di attivismo: è passato il tempo, è finita l’epoca del “non lo sapevo”, ed è anche finita l’epoca in cui quella roba lì poteva essere definita “bella”.
Scrivo, inoltre, una cosa che aggiunge inutilità all’inutilità: non posso nemmeno pensare che quell’ex coda di volpe, o pezzo di cane o gatto attorno al cappuccio vi tenga più caldi: vi tiene più freddi, invece, ve lo assicuro.
Federica Giordani