Periodicamente ci troviamo a dover fermare le campane che suonano a lutto per la scelta vegana. Lo scorso agosto era stata la discesa dei ricavi dell’azienda americana Beyond Meat a far scattare lo start per la corsa podistica verso chi avrebbe per primo gridato che il “vegan è morto”. Adesso tocca a Gambero Rosso che ultimamente ha scoperto la parola “vegan” e la sta affrontando in un articolo a settimana (a volte benissimo, a volte, come questa, un po’ tanto a casaccio).
Secondo l’articolo in questione, la chiusura di quattro ristoranti della catena Neat Burger (fra i cui investitori ci sono anche il pilota di Formula Uno Lewis Hamilton e l’attore Leonardo Di Caprio) sarebbe il chiaro segnale che il veganismo sia ormai qualcosa di superato, che in qualche modo abbia raggiunto “la saturazione” anzi che stia per “arenarsi”. I problemi di questo sillogismo sono un milione mezzo ma possiamo analizzarli insieme – non tutti – per capire di cosa stiamo parlando.
La chiusura di alcuni punti vendita
Se la crisi di una filosofia come quella vegana (ne abbiamo parlato qui) va misurata in ristoranti vegani che chiudono, allora dovremmo fare lo stesso con l’alimentazione “classica” e specista? Ok. Secondo la Camera di Commercio, nel 2022 (ultimi dati disponibili) hanno chiuso nel nostro paese più di 17mila attività ristorative. Quello che accade a catene come Neat Burger (che chiude 4 ristoranti a Londra dove ne rimangono altri 4, e ne apre intanto uno in Italia e uno a Dubai), o ad aziende enormi come Beyond Meat, si chiama crisi del mercato e diminuzione del potere di acquisto della popolazione. Decidere di spendere meno per mangiare fuori (e contando i rincari che ci sono stati è chiaro che possa essere uno dei primi tagli da fare) non significa non essere più vegani o non decidere in ogni caso di mangiare meno carne cercando di cambiare alimentazione. I ristoranti vegani fanno più fatica? Forse, e sapete come mai? In parte proprio perché esiste una cultura dei media (anche di settore, proprio come Gambero Rosso o Dissapore) che continuano a veicolare l’idea che quella vegana sia una cucina di nicchia, strana, costosa, poco interessante e “passeggera”, una moda per quei “sensibiloni” degli animalisti.
La “fatica delle proteine vegetali”
Riprendendo un articolo pubblicato su Daily Mail e che a sua volta cita una blogger esperta di diritti dei consumatori, Helen Dewdney, Gambero Rosso spiega che il problema starebbe anche “nel riuscire quotidianamente a garantire il giusto apporto proteico senza ricorrere a proteine animali, cosa semplice. Alcuni rinunciano al veganismo dopo aver realizzato che “trovare alternative e avere comunque una dieta variata (in linea con tale subcultura) è molto più complicato da rispettare di quanto non si pensasse inizialmente. A questo si aggiunge la diffusa percezione che in diversi casi le proposte vegane siano grossomodo dei surrogati della carne: proteine vegetali “eccessivamente lavorate e malsane”.
Insomma qui il punto cambia ancora: il veganismo non è morto, è solo difficile. Ovviamente, per chiunque conosca un minimo di basi dell’alimentazione vegetale, sa benissimo che questa fornisce tutte le proteine di cui un essere umano ha bisogno. Qual è il nostro fabbisogno proteico giornaliero? Presto detto: la RDA è di 8/10 di grammo (0.8 grammi) di proteine per ogni chilogrammo di peso. Questa raccomandazione ha un generoso margine di sicurezza per la maggioranza delle persone. Queste raccomandazioni valgono anche per coloro che seguano una dieta vegana: in questo caso, l’apporto proteico incide per circa il 10% delle calorie totali della dieta. Due indicazioni: la soia, con i suoi 36,9 g di proteine ogni 100 g di prodotto, risulta tra i legumi più ricchi di questi nutrienti. A seguire, troviamo le fave (27,2 g di proteine per 100 g), i fagioli cannellini (23,4 g di proteine per 100 g), le lenticchie (22,7 g di proteine per 100 g), i fagioli dall’occhio (22,4 g di proteine per 100 g), i piselli (21,7 g di proteine per 100 g) e i ceci (20,9 g di proteine per 100 g). Per non parlare delle bevande vegetali, dei formaggi vegetali, della frutta secca e dei prodotti derivati dalla soia. Insomma, non c’è proprio niente di difficile.
Che sia difficile assumerle mangiando solo burger di fast food vegan, beh, questo è un altro paio di maniche, ma davvero vogliamo fare credere che un ristorante fast food chiuda per questa ragione?
Il pluralismo
Infine, sempre secondo il necrologio di Gambero Rosso, la soluzione potrebbe essere rispettare il pluralismo e avere ristoranti che fanno educazione alimentare proponendo i piatti classici affiancati anche da proposte vegane. Una fantasia bellissima. Eppure loro dovrebbero saperlo molto bene che nella maggior parte dei ristoranti – soprattutto in Italia – dichiarare di essere vegani ha spesso lo stesso effetto su camerieri e cuochi di una cartella esattoriale portata a mano dai vigili direttamente al proprio domicilio. Difficile, quindi, non è mangiare il giusto quantitativo di proteine, bensì trovare ristoranti che cucinino vegano con una cultura culinaria seria sul tema e non semplicemente (storia vera) versando il contenuto di una insalatona su una marinara (costo dell’operazione, 14 euro ). Ecco perché nascono i ristoranti vegani, compresi i fast food, e chiudono per la crisi economica e l’inflazione esattamente come tutti gli altri ristoranti (tranne i fast food onnivori che con la qualità di cibo che propongono e i ridimensionamenti delle porzioni, se la cavano lo stesso in qualsiasi bufera economica provocando però quelle climatiche).
Il veganismo è una cosa seria
Dopo 80 anni dalla nascita della definizione “vegan”, dopo 1900 anni dalle prime riflessioni sul tema del chi mangiamo e che diritto abbiamo di farlo, dopo che milioni di persone nel mondo si battono per far comprendere cosa sia l’antispecismo e perché mangiare vegano sia una delle prime conseguenze di questa consapevolezza, è davvero inutile pensare che si possa gridare alla morte del vegan su queste basi, ma è normale che sia così se non si sa bene di che cosa si sta parlando. Amen.