La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea è chiara: d’ora in avanti non potranno più essere denominati come “latte”, “burro”, “formaggio” o “yogurt” tutti i prodotti a base vegetale. La redazione di Vegolosi.it ha raggiunto telefonicamente Carlo Prisco, avvocato esperto in diritto al vegetarismo, per fare chiarezza su una questione così controversa.
Partiamo dal principio: che cos’è questa sentenza?
E’ l’interpretazione di un regolamento europeo, il che la rende immediatamente efficace in tutti gli stati membri dell’Unione. Questo significa, quindi, che, dal momento in cui la sentenza è stata pronunciata, il regolamento dovrà essere osservato in tutto il territorio europeo nella modalità indicata dalla Corte di Giustizia.
In pratica, che cosa comporterà questa sentenza?
Di fatto nessun alimento che non sia di derivazione animale, dal momento della sentenza, potrà più riportare la dicitura “latte”, “burro”, “formaggio”, “yogurt” e similari in etichetta.
Nella sentenza si legge che “i prodotti puramente vegetali non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni, come «latte», «crema di latte o panna», «burro»”; ma cosa significa “in linea di principio”?
In sostanza vuol dire che, salvo deroghe o casi particolari – che vanno analizzati sempre in riferimento alla normativa – nella normalità va applicato il concetto espresso dalla Corte di Giustizia. La deroga è comunque contemplata entro i limiti di una norma comunitaria che specifica, in un elenco tassativo, quali sono i casi per cui queste denominazioni possono essere utilizzate. La Corte ha ritenuto inapplicabile la deroga al caso specifico perché appunto non è all’interno di questo elenco (che comprende per esempio latte di mandorla, burro di cacao, latte di cocco, ndr). La cosa è, se vogliamo, un po’ buffa se pensiamo che da un lato la dicitura (con relativa definizione) di “latte vegetale” si trova perfino nei dizionari e, dall’altro, la normativa va contro il senso comune.
Tempo fa la Corte si è pronunciata sulla questione del “meat-sounding”, ritenendo che diciture come “ragù vegetale” o “affettato vegano” non siano ingannevoli per il consumatore. Perché questa differenza?
Il problema è di natura normativa, perché la norma applicata nel “caso-latte” dalla Corte è tassativa, come già dicevamo. Per quanto possa dirne io, l’unico margine interpretativo questa volta stava nel decidere se la dicitura “vegetale” accanto al termine “latte” potesse in qualche modo modificare la definizione di latte prevista dal regolamento, che di per sé esclude il latte vegetale. Per gli alimenti “sostitutivi” della carne non esiste una norma tassativa e da qui deriva un pronunciamento tanto differente.
Perché la Corte Europea si è espressa in questo modo? Possono esserci state delle influenze esterne?
Lo escluderei, perché come già detto la Corte era abbastanza vincolata da un punto di vista giuridico. Piuttosto direi che il problema sta a monte, perché è la normativa ad essere erronea e decisamente da modificare.
Per il consumatore, che cosa cambierà?
Dal momento stesso in cui la sentenza è stata emessa e fino a quando non sarà sovvertita da un’altra pronuncia opposta o dalla modifica del regolamento, il consumatore non troverà più in commercio la dicitura “latte”, “burro” e via dicendo, accanto a un prodotto che non sia di origine animale.
A suo parere, quali saranno le conseguenze di questa presa di posizione?
Nel nostro Paese già alcune associazioni, come Coldiretti, parlano della “fine di un inganno”, che avrebbe riguardato circa il 7% della popolazione italiana (ovvero il totale dei vegetariani e vegani nel nostro paese). Di fatto, secondo Coldiretti, queste persone sarebbero state indotte ad acquistare prodotti vegetali nascosti “sotto mentite spoglie”. Questo è ovviamente ridicolo, perché è chiaro che qualunque persona vegana o vegetariana comprasse quel tipo di bevanda proprio perché di origine vegetale. Secondo me, quindi, per i consumatori vegetariani o vegani questa sentenza non porterà alcun cambiamento: continueranno a comprare gli stessi prodotti, indipendentemente dalla dicitura in etichetta. Il problema vero, a mio avviso, si porrà per quei consumatori onnivori che acquistavano i prodotti vegetali in sostituzione di quelli di origine animale: anche da un punto di vista psicologico, è più difficile accostare il concetto di “bevanda” a quello di “latte”, e questo potrebbe tradursi in un drastico calo dei consumi di questi prodotti.
Quindi si prospetta anche una crisi per le aziende produttrici?
Secondo me sì, perché è chiaro che il consumatore onnivoro si rivolga all’alternativa vegetale solo fino a quando la percepisca come tale. Questo cambio di dicitura potrebbe indurre tanti consumatori onnivori a rinunciare a questi alimenti, non più percepiti come realmente “sostitutivi” di quelli animali. Tutto ciò, ovviamente, a favore delle industrie lattiero-casearie.
Avvocato, quindi non potremo davvero più parlare, nemmeno fra di noi, di “latte di soia”?
Ovviamente no, la sentenza riguarda solo gli aspetti commerciali della questione: nessuno potrà più vendere un alimento che accosti la parola “latte” alla parola “vegetale”. Detto questo, ognuno di noi rimane libero di chiamare le bevande vegetali come meglio crede e ciò vale anche per blog e siti internet.