Il gruppo Brazzale, azienda italiana impegnata nella produzione di formaggi, latte e panna, ha dato vita a un progetto per il quale verranno piantati 300 alberi di alto fusto per ogni bovino allevato. Gli alberi verranno posti nel pascolo riforestato Silvi Pastoril, in Brasile, nella zona del Mato Grosso. In totale, verranno piantati 600 mila alberi. Il gruppo italiano ha commentato dicendo che «con il pascolo riforestato con 300 alberi per capo otteniamo una riduzione di dieci volte dell’impatto ambientale raddoppiando la produzione di carne, e riportiamo il bestiame a condizioni di assoluto benessere, perché vive come in natura allo stato brado. La riforestazione – prosegue Roberto Brazzale, presidente del gruppo – genera grandi quantità di legna impiegata come energia termica rinnovabile e prezioso materiale da costruzione». In poche parole viene promossa la riforestazione per poterne ricavare ancor più legna da impiegare come energia rinnovabile: un concetto di “sostenibilità” del tutto particolare. Nel presentare questa idea, il gruppo riporta i dati degli analisti della Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite, la FAO, secondo i quali la domanda mondiale di carne raddoppierà entro il 2050.
I dati della FAO
La cifra è tutto sommato corretta: nel 2011, il rapporto sulla zootecnia stimava infatti una crescita del consumo di carne di circa il 73% entro il 2050 e un parallelo aumento dei consumi dei prodotti caseari di circa il 58%. Ma la stessa FAO spiegava che «gran parte della domanda futura di prodotti d’allevamento, in particolare nelle aree metropolitane in espansione, in cui si concentra la maggior parte della crescita della popolazione, verrà soddisfatta dall’uso di sistemi d’allevamento intensivo su larga scala»: al momento, riferiva il rapporto, «non esistono alternative tecnicamente o economicamente fattibili alla produzione intensiva per realizzare l’offerta di prodotti alimentari zootecnici necessaria a soddisfare i bisogni delle città in espansione». Ma questi sistemi «sono fonte di preoccupazione – prosegue il rapporto – sia per il loro impatto ambientale, come l’inquinamento delle falde acquifere e l’emissione di gas serra, sia in quanto potenziali incubatori di malattie, avvertendo che “una sfida inderogabile è quella di rendere la produzione zootecnica intensiva più sostenibile a livello ambientale». Nell’Occidente industrializzato, negli ultimi anni il consumo di proteine animali si è attestato tra il 78% e il 98% del fabbisogno proteico totale: qui sarebbe necessario un minore consumo di carne, a fronte di una situazione opposta nei paesi in via di sviluppo dove si rendono necessari interventi radicali per fornire una nutrizione adeguata alla popolazione. Secondo il rapporto della FAO, nei paesi sviluppati si produce solo il 20,3% delle calorie consumate a livello mondiale, ma se ne consuma più del doppio (47,8%).
Il rapporto 2014 della FAO sull’agricoltura
Lo scorso luglio, inoltre, la FAO presentava a Roma un rapporto sull’agricoltura dal quale emergeva, oltre alla conferma del ruolo chiave dei cereali, anche il dato secondo cui fino al 2023 ci sarà un aumento del 75% della produzione agricola nelle regioni in via di sviluppo, mentre la produzione mondiale di cereali crescerà di circa 370 tonnellate, circa il 15% in più. L’esportazione tra i paesi, però, aumenterà appena di un paio di punti percentuali, la metà rispetto al decennio precedente. La stessa organizzazione spiega che questi dati in aumento sono strettamente collegati alla crescita della produzione globale di carne (associata all’aumento del consumo di carne pro capite), che costituisce il 20% delle calorie consumate nei paesi sviluppati e il 13% a livello mondiale. In Italia, in particolare, il consumo di carne è aumentato del 200% in meno di cinquant’anni, pari a circa 700 grammi a settimana contro i 400 raccomandati. In questi casi i numeri sono relativi solo alla carne: sono dunque esclusi gli alimenti di origine animale.
L’impatto ambientale
I dati parlano chiaro: la FAO esprime la sua preoccupazione sulle differenze tra paesi sviluppati, paesi in via di espansione e il resto del mondo; ma lo fa anche sui ritmi di crescita della produzione e del consumo di carne, che provocano a loro volta un aumento della produzione di prodotti agricoli utili soprattutto come mangime degli animali. Proviamo ora ad allargare un po’ il discorso, perché ovviamente quel che conta non è soltanto l’abuso degli animali negli allevamenti intensivi, ma anche l’impatto ambientale che la loro stessa esistenza comporta: abbiamo detto che quintali di cereali vengono utilizzati nell’alimentazione degli animali, per non parlare dell’inquinamento delle acque e dell’ambiente che nasce da questo tipo di fabbriche, dell’uso improprio delle terre, della deforestazione, fino all’emissione del gas serra. Un esempio su tutti: un manzo può consumare durante la sua vita trascorsa tutta all’interno di un allevamento intensivo anche cinque tonnellate di cibo, e da questo animale si ricava carne per fini alimentari pari a circa la metà del suo peso corporeo. Lo stesso manzo, inoltre, consuma anche ottanta litri di acqua al giorno (duecento se parliamo di una mucca da latte). Secondo l’Unesco, un quarto dell’impronta idrica globale finisce ogni anno negli allevamenti intensivi. La FAO, invece, riporta che in tutto il mondo dagli allevamenti giungono 135 milioni di tonnellate di azoto e 58 milioni di fosforo tramite il letame degli animali, in cui però si ritrovano anche zinco, selenio, manganese, ferro e rame: tutti elementi chimici pericolosi per l’uomo che finiscono poi nei terreni.
Deforestazione e degradazione del suolo
Altro punto cruciale, la deforestazione e la degradazione del suolo. Sempre secondo la FAO, la zootecnia utilizza il 30% della superficie terrestre e il 70% delle terre agricole. Nella zona della foresta amazzonica, in particolare, la stessa organizzazione dell’ONU stima intorno al 70% la quantità di terre deforestate trasformate in pascoli bovini, mentre il restante 30% è usato per la produzione di mangime. Negli ultimi vent’anni, oltre 100mila chilometri di foresta sono stati trasformati in terra da pascolo. Questo perché in Brasile l’esportazione di carne è aumentata del 300% in trent’anni (secondo il Center for International Forestry Research), cosa che gli ha permesso di diventare il principale esportatore mondiale di carne bovina: nella sola Europa, tra il 1990 e il 2001 la percentuale di carne importata dal Brasile è passata dal 40% al 74%. Le stime prevedono che questi numeri possano raddoppiare nel giro di qualche decina di anni.
Emissione di gas serra
Capitolo gas serra: dagli allevamenti intensivi e da quelli estensivi di animali viene generato il 18% delle emissioni globali, più di tutto il sistema dei trasporti, anche se altre fonti parlano di numeri ben più ampi. I gas nocivi introdotti nell’ambiente sono metano, ossido di diazoto, ammoniaca. Per 225 grammi di carne di manzo prodotta, nell’ambiente finisce una quantità di CO2 pari al viaggio di circa sedici chilometri di un’automobile; per la stessa quantità di patate, il viaggio si accorcia ad appena trecento metri. In Amazzonia, gli alberi della foresta contengono circa 75 miliardi di tonnellate di carbonio: questo può solo farci immaginare la quantità di CO2 che si disperde nell’atmosfera quando gli alberi vengono abbattuti o bruciati per far posto a pascoli o alle altre coltivazioni della zootecnia.
Riduzione della biodiversità
In ultimo, sempre la FAO spiega che «il settore zootecnico può essere considerato il principale fattore nella riduzione della biodiversità»: tutto quello che si è detto finora impatta in maniera radicale sulle varie specie animali e vegetali presenti in natura, cosa che poi comporta l’estinzione di numerose specie animali e la rovina – talvolta irreparabile – di alcune coltivazioni vegetali.
Il caso emblematico dell’olio di palma
Sappiamo bene come l’olio di palma, soprattutto negli ultimi mesi, abbia guadagnato una cattiva nomea. Si è detto qualsiasi cosa contro questo ingrediente molto presente nell’alimentazione delle nostre latitudini, soprattutto per via del suo ampissimo uso a livello industriale. Ma spesso la disinformazione, o più banalmente l’assenza totale di informazioni, ha giocato un brutto scherzo a scapito della correttezza delle notizie e dei dati reali su questo olio. Quel che è certo, è che non si tratta di un grasso di buona qualità: secondo alcuni ricercatori e nutrizionisti italiani, il problema peggiore è che fa aumentare la concentrazione di grassi nel sangue, dal colesterolo ai trigliceridi, e favorisce danni cardiovascolari e stati di infiammazione cronica. Inoltre, per la sua produzione vengono distrutti molti ettari di foresta tropicale soprattutto in Malesia e Indonesia, dove sono molto diffuse le palme (cinquant’anni fa il territorio dell’Isola di Sumatra era ricoperto di foreste per l’82%, ma la cifra è scesa al 52% nel 1995 e si pensa che possa azzerarsi nel giro di una decina d’anni): questo fa sì che vari animali come oranghi, eleganti e rinoceronti si vedano ridurre costantemente spazio vitale, cosa che sta provocando un serio rischio di estinzione. Inoltre, la sua vendita all’estero ha prezzi davvero irrisori: la qualità molto bassa del prodotto trova corrispondenza in una convenienza economica a livello industriale. Ecco perché negli ultimi anni l’opinione pubblica ha pian piano iniziato a mutare atteggiamento nei confronti dell’olio di palma, ingrediente evitabile solo tramite una scelta più oculata dei prodotti quando si fa la spesa. È tuttora in corso sul sito change.org una petizione che chiede l’eliminazione dell’olio di palma dagli alimenti che finiscono sulle nostre tavole. Negli ultimi giorni, inoltre, le isole di Sumatra e Kalimantan sono state devastate da enormi incendi – probabilmente dolosi – che stanno inquinando una zona vastissima del Sud-Est asiatico. Il governo prevede ci vorrà almeno un altro mese prima di spegnere gli incendi. L’agenzia di stampa Reuters, in relazione a questa notizia, rilancia il provvedimento con cui le autorità indonesiane hanno temporaneamente sospeso il permesso di coltivare le piantagioni di palme a tre compagnie internazionali. Una quarta, poi, se l’è visto definitivamente revocato. Il governo sospetta che dietro gli incendi – che finora hanno causato cinque morti e oltre 500 mila richieste di soccorso agli ospedali per via di problemi respiratori – ci siano proprio queste quattro industrie.
Domenico D’Alessandro