“Tutti sanno da dove arriva la carne. Arriva dai supermercati”. Una lunga installazione su cui sono dipinte in nero queste parole precedute da linee che simulano le sbarre di una gabbia e interrotte da schizzi rossi di vernice che paiono sangue. E’ un’opera del 1978 di Keith Haring, pittore e writer newyorkese scomparso nel 1990, che ha voluto mostrare la disconnessione che caratterizza il rapporto tra l’uomo e il cibo. La carne deriva dagli animali, lo sanno tutti, eppure la maggior parte degli esseri umani non pensa o non associa quell’hamburger, quel pollo fritto, quei bocconcini di pesce che sta addentando, alla creatura vivente che è morta per diventare quel cibo stesso. Abbiamo perso la connessione e i media ci raccontano bugie.
In questa opera Haring ha abbandonato il suo consueto stile bidimensionale, apparentemente infantile che lo ha reso immortale, ma rimane chiara la sua impronta graffitista, evidentemente pop art, fortemente influenzata dall’amicizia con Jean Michel Basquiat; insieme furono i primi due veri street artists americani. Ma soprattutto non dimentica il suo lato attivista e preoccupato soprattutto per il futuro che aspetta la società, quella americana degli anni ’70 e ’80 con la minaccia nucleare, il boom dell’abuso di crack, l’AIDS (la stessa malattia che lo condannerà alla morte ad appena 31 anni), l’attaccamento morboso al denaro e la perdita di identità individuale legato al dilagare del mezzo televisivo.
Al crescere del suo timore per i mali contemporanei, il suo segno si fa più aggressivo e aggrovigliato. Sintomo di un malessere non solo sociale, ma soprattutto interiore.
Il cane nell’opera di Haring
I soggetti più ricorrenti nelle opere dell’artista americano sono i cani e i bambini: “All’inizio la mia firma fu un animale che diventò sempre più simile a un cane. Poi cominciai a disegnare un bambino che andava a quattro zampe e più lo disegnavo e più è diventato The Baby”. Bambini e cani che vanno a quattro zampe, intimamente collegati, in quanto esseri più attaccati alla terra, ancora pieni di energia vitale, in atto o potenziale.
I suoi cani non abbaiano soltanto o camminano a quattro zampe. Camminano anche a due zampe. Sono anche grandissimi, a volte, e diventano ciclopici: afferrano, mangiano e calpestano gli uomini. Sono depositari di un’energia primordiale, genuina, di fronte a un uomo ormai malato; Sono cani che si muovono di continuo, velocemente: si divertono a giocare, a saltare, sono feroci, entusiasti, giocosi, dissacranti, imprendibili, come colui il loro creatore. Sono tantissimi eppure sono per tutti, sempre e solo, “il cane di Keith Haring”. La sua forma si imprime immediatamente nella memoria, riconoscibilissimo. Un omaggio sincero al miglior amico dell’uomo.
Street Art e animali: Sirens of the Lambs
Sirens of the lambs (titolo che riprende e storpia “Silence of the lambs”, celeberrimo film del 1991 tradotto con “Il silenzio degli innocenti” in italiano) è un’opera di Banksy, lo street artist più famoso al mondo attorno alla cui persona aleggiano leggende metropolitane e un alone di mistero alimentati dal fatto che nessuno lo ha mai visto in volto. O lo si ama, o lo si odia poiché le sue opere sono ironiche, spietate, dichiaratamente anticapitalistiche, contro il potere, il consumismo, l’avidità e a favore della pace.
In questa performance Banksy ha allestito un camion tradizionalmente adibito al trasporto degli animali da allevamento verso i macelli con peluche di mucche, maiali, conigli, galline e cani. Ad aumentare l’effetto, un sonoro che riproduce un concerto di lamenti e versi come se quei pupazzi fossero creature vive.
Naturalmente l’interesse dell’opera sta nella reazione dei passanti: persone sgomente, bimbi che scoppiano a piangere, addirittura una ragazza che fugge; certo quello dello spettacolo di animali vivi in viaggio verso la morte, seppure di peluche, non è uno spettacolo adatto alle vie cittadine di New York.
Serena Porchera
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