di Marta Abbà
Dignitosa e riservata, selvatica per sua natura, quella del Kilimanjaro è una cima da corteggiare con giorni di sali e scendi tra i 3000 e i 4.600 metri. Poi il blitz finale, per raggiungere la vetta, l’Uhuru Peak, dopo un tè allo zenzero a Stella Point, poco sotto. Dai suoi 5895 metri, tanto irritanti per chi vorrebbe vantarsi di un 6.000 raggiunto, si levita su uno strato di nuvole che arrossisce all’arrivo del sole per poi permettergli di scaldarti le mani. Almeno per scattare una foto e ridiscendere. Accade tutto in un giorno, the big day, che inizia a mezzanotte con caffè lungo e due biscottini al cocco e prosegue con sei ore di cammino al buio, ipnotizzati dai talloni dal compagno davanti. Un giorno che si conclude con oltre 1.200 metri di dislivello di discesa infinita, percorsa mentre il cuore batte forte, custodendo la meraviglia che l’alba gli ha consegnato.
Pole pole, il segreto per la cima
Chi pensa alla salita del Kilimanjaro come a una prova fisica, un’escursione extreme, un mettere alla prova l’esperienza fatta sui 4.000 alpini, pensa coi paraocchi. C’è un percorso totalmente mentale e inedito “incluso nel prezzo” di questo viaggio che permette di vivere fisicamente e all’ennesima potenza esperienze di determinazione, ansia, paura e forza quotidiane mai penetrate del tutto nel nostro io.
Lo comprendi subito quando, al primo sgambettare nella foresta, le guide tanzaniane parlanti inglese e italiano ti costringono ad avanzare pole pole. “Pole pole, fino alla cima”, ripetono, senza alcun cenno né intenzione di accelerare. Sono le prime parole locali che impari, e diventeranno un mantra. Pole pole significa “piano piano”, un avanzare lento e inesorabile, inconcepibile per chi ha da poco lasciato la capitale dello stress leggendo le ultime mail nel decollo e ha sette sveglie ancora puntate sul cellulare per il terrore del “non fare in tempo”. Davanti agli sguardi infastiditi e sospettosi nel gruppo (“Ma così arriveremo alla cima?”) ci sarà solo un sorriso spalancato, uno sguardo amichevolmente divertito: un altro pole pole sarà l’unica risposta delle guide. Le altre le darà il corpo, il tuo, avanzando senza affanno e macinando chilometri, espandendosi per accogliere panorami e odori, distendendosi nel sacco a pelo e “ronfando” anche 8 ore di seguito, assaporando zuppe, crocchette, “coffee” improbabili e succhi di mango con una naturalezza e una determinazione inaspettate.
L’ultima risposta la darà la lacrima che, anche sotto zero, ti righerà il volto quando raggiungerai il noto cartello “5.895 m” mentre il primo millimetro di sole spaccherà il velo di nuvole grigie. Una risposta che non scorderai mai.
Attraversando la biodoversità
Raggiungere i “quasi” 6.000 dà soddisfazione, ma quelli del Kilimanjaro sono così stratificati e spettacolari da rendere l’intero percorso un’avventura da godere ora per ora. Inevitabile è l’ansia da big day, già solo prenotando il viaggio, ma è importante riuscire a concepire ogni tappa come una piccola escursione a sé, tenendo aperte le proprie cellule a tutti gli stimoli di cui è cosparso il percorso. Odori e colori, versi di animali e voce del vento: per salire sopra il cielo si attraversa la variegata multiforme ricchezza che il mondo cerca di custodire, nonostante i nostri sforzi per ucciderla.
Si parte dalle piantagioni di caffè attorno al lodge, con perimetri rossi di ibisco gigante, e si sfiorano i 6.000 metri dove dominano pietra vulcanica e ghiaccio. In mezzo, tanti mondi. La foresta umida annunciata dalle scimmiette, con Maracanga, Albizia e tante specie di Impatients. Il moorland, la brughiera, dove nulla ti separa dal sole che si accontenta di creare ombre minimaliste con cespugli e arbusti bassi. Qui qualche palma dalla chioma entusiasta segnala il passaggio di acqua e l’erica arborea gioisce nella sua veste africana tutta gialla. Prende il suo posto quella boreale ma, piccola e timida, saluta e scompare prima dei 4.000. Da qui in poi solo qualche coraggioso cardo e alcuni uccelli veglieranno sui pensieri e sui passi compiuti fino alla cima. Creature da favola noir, un incrocio tra corvi e avvoltoi con un becco nero macchiato di bianco a renderli più amichevoli.
Nei giorni di acclimatamento, quelli di “corteggiamento della cima”, si fanno blitz a 4.600 metri per mangiare qualcosa per poi tornare a dormire a 3.000. Le mappe non dicono granché ma attraversare questi strati di biodiversità fa sentire accarezzati da una bellezza sor- prendente e vivace. Uno “struscio” con la natura che, svanita l’ansia da cima, al rientro, fa sentire fortunati, ricchi, felici ma anche responsabili di un ecosistema fragile e tenace, che va aiutato a esistere e a insegnarci che diverso è bello.
La gratitudine non ha peso
Mancano da citare dei protagonisti essenziali per la riuscita del viaggio e decisivi nel renderlo un’esperienza umana e non un esercizio muscolare da gagliardetto appuntato al petto: I did it!. Le guide e i portatori. Le prime, giovanissime, sono il primo contatto con una Tanzania solo sfiorata. Sono state, nel mio caso, persone di generosa e solare bravura, in grado di farti calare nel “Kilimanjaro mood” senza dispensare “lezioncine” di vita. Poche parole, sorrisi determinati e una miriade di micro-gesti importanti, di attenzione, di spiegazione, di aiuto, di gioco, di supporto. È grazie a loro che si impara subito a por- tare forte rispetto ai portatori, persone dai 18 anni ai “finché si regge” che hanno trasportato al nostro posto bagagli e accessori per camp e ascesa. Si scelgono persone che portino il materiale e nessun animale, perché siamo in un parco tutelato e perché la quota da raggiungere è elevata.
Quando si prenota, l’idea di avere solo lo zaino di giornata è un sollievo, a volte l’unica con- dizione per non tornare con la schiena a pezzi. Ma una volta sul posto, si incontrano i portatori: un fiume di esistenze sorridenti e variegate, un popolo colorato e infaticabile con cui tutti i giorni condividerai ogni passo, il sentiero, il clima, i suoni, l’aria sempre più sottile, i gradini e le salite più fetenti.
C’è una regola non scritta e mai esplicitata, quando si cammina: spazio e precedenza ai portatori. Pronunciato scandendo le sillabe con la gratitudine e la “vicinanza” più autentica, “attenti ai portatori” diventa subito il segnale per bloccarsi e mettersi da parte per lasciare via libera e non creare ostacoli o pericoli. È talmente ovvio, prioritario, importante. È il minimo e anche il massimo che si possa fare in un contesto che è strutturato così da anni.
Il sollievo dello zaino portato e l’eccitazione per la cima provati scorrendo la prima volta il programma a casa, lasciano spazio a una gamma di emozioni che trasformano il viaggio e chi viaggia. Si impara istintivamente a camminare con orecchie e occhi concentrati sul percepire se sta arrivando un portatore da far passare, scansandosi di lato. A sorridergli un po’ vergognandosi e pensando a quella maglietta inutile che si poteva anche lasciare a casa.
Prendono circa otto euro al giorno, portano di tutto, anche le stesse nostre guide lo fanno se non hanno clienti. Poche sono le donne, alcuni hanno le casse per ascoltare la musica e saltel- lano, altri si trascinano con lo sguardo spento, triste, distratto. Forse contano i giorni per tor- nare a casa, tra i campi o nel proprio orticello. Forse pensano ai figlioletti, uno mi mostra la sua treenne in foto e drizza le spalle luminoso. Rappresentano il rispetto, la condivisione, la diversità, le contraddizioni del turismo, le domande che ci si pone quando lo si fa in Africa. Rappresentano una parte di vita che spesso non abbiamo a contatto diretto. Quelli che lavorano per te e ti portano il peso solitamente non ti sfiorano mentre cammini, non ne vedi la fatica e il sudore ogni giorno, non ne ascolti l’affanno. Sul Kilimanjaro sì.
Non penso si tratti di una variante di mal d’Africa, ma sono certa che il portare rispetto a chi porta il tuo peso e il pole pole proseguiranno con me nell’ascesa, quella che ciascuno compie quotidianamente verso la migliore versione di sé possibile.