Mangiare è una questione di neuroni. Anche gli chef stellati presentano impiattamenti elaborati, e le mamme e i papà cercano soluzioni creative per far mangiare le verdure ai bambini. Eppure, numerosi altri fattori hanno un ruolo cruciale nelle nostre scelte alimentari. I cinque sensi? Senza dubbio, ma anche meccanismi più “nascosti” del nostro cervello.
Lo dimostrano gli studi condotti nel campo delle neuroscienze, e illustrati nel libro Guida per cervelli affamati. Perché da bambini odiamo le verdure e altri misteri neurogastronomici che ci rendono umani, di Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi, due neuroscienziate e ricercatrici italiane. L’idea del libro, spiegano le autrici, è nata nel 2020, durante il primo lockdown, quando le persone chiuse in casa trovavano conforto nella cucina. Il testo fa un excursus nella storia di Homo sapiens, dal “menu” ancestrale a base di bacche e radici agli ipotetici cibi del futuro, passando per moltissime curiosità sulle nostre abitudini alimentari. Perché le neuroscienze e la cucina non sono mondi così separati.
Residui dell’antichità
Molte delle nostre abitudini alimentari derivano in effetti da quelle dei nostri antenati ominidi, che non avevano a disposizione la stessa quantità e varietà di cibi che abbiamo noi. Fondamentale quindi era saper distinguere con certezza le piante commestibili da quelle velenose, gli alimenti sostanziosi da quelli poco nutrienti, i frutti maturi da quelli acerbi. Sorprendentemente, nonostante siano passate centinaia di migliaia di anni, l’uomo contemporaneo porta ancora con sé gli strascichi di queste antiche conoscenze. Ancora più sorprendentemente, questo fenomeno spiega perché i bambini non vogliono mangiare le verdure. Da un lato si tratta di semplice “neofobia”, cioè la riluttanza (che, a pensarci bene, riguarda anche i grandi) a provare cose nuove. Dall’altro, però, la spiegazione risiede nel fatto che le verdure sono verdi: per un vegetale, essere verde significa non essere maturo, quindi non aver ancora assorbito sufficiente luce solare e sostanze nutritive, al contrario di colori come il rosso, che segnalano la completa maturazione e la ricchezza di nutrienti. I bambini applicano inconsciamente questa nozione, e quindi vedono le verdure come cibi non “degni” di essere consumati.
Per far fronte a questa difficoltà possiamo “giocare al loro gioco”, e mettere in campo un altro importante meccanismo ancestrale: la socialità. Con l’evoluzione, infatti, l’atto del mangiare si è trasformato da un atto di sopravvivenza necessario a un momento conviviale e di condivisione – almeno in Occidente. Le persone con cui condividiamo il momento del pasto riescono a influenzare, più o meno consciamente, le nostre scelte alimentari, ed è per questo che se i genitori insistono con il dare l’esempio e mangiare le verdure, presto o tardi i bimbi saranno pronti a fare altrettanto.
Mangiamo con la bocca, ma anche con gli occhi e con le orecchie
La socialità, nel XXI secolo, passa necessariamente anche attraverso i social. La gastronomia e la cucina in questo senso diventano vere e proprie esperienze condivise e condivisibili, in cui il coinvolgimento di intere community (non più solo il nucleo familiare o quello degli amici) diventa il fulcro delle attività culinarie. In questo senso, è chiaro perché l’occhio vuole la sua parte: il bell’impiattamento, la cura nell’accostamento dei colori e l’armonia delle forme fanno sì che un’insalata risulti più gustosa se impiattata come un quadro di Kandinskij.
Ma anche gli altri tre sensi sono coinvolti nell’esperienza gastronomica: dopo il gusto, è facile intuire come anche l’olfatto sia di fondamentale importanza, “anticipando” l’esperienza delle nostre papille gustative. Ma anche il tatto è cruciale: l’abbinamento di texture diverse costituisce un altro tassello dell’attività “neurogastronomica” insieme all’udito: lo sanno bene i produttori di patatine, che puntano molto alla croccantezza dei loro prodotti, perché secondo gli studi se le patatine non “scrocchiano” vengono percepite come meno buone. Lo sanno anche i ristoranti e i bar, che propongono musiche coerenti con i piatti per immergere ancora di più i clienti nell’atmosfera di ciò che stanno gustando.
Sul ruolo dei sensi nell’alimentazione, in realtà, si sa ancora molto poco, e sono necessarie altre ricerche. Quel che è noto è che anche per gli altri animali l’atto di mangiare coinvolge tutti e cinque i sensi, ma in misura diversa dalla nostra: per i cani, ad esempio, è l’olfatto ad avere il ruolo che per noi ha la vista, per cui il cibo deve avere un buon odore ma non necessariamente un impiattamento gourmet.
I cibi del futuro
Il modo in cui mangiamo, come abbiamo visto, cambia nel tempo, ma lo stimolo parte ancora dalle esigenze del nostro corpo. Se però un tempo mangiare era, appunto, un’esigenza, ora può addirittura diventare un problema. La sovrabbondanza di cibo può causare disturbi e patologie tra gli esseri umani, basti pensare all’obesità, e questo ci amareggia ancora di più se pensiamo invece alle popolazioni che invece soffrono la fame.
Coricelli e Rossi prevedono (e auspicano) un cambiamento nella nostra alimentazione, anche per far fronte al cambiamento climatico del nostro pianeta. L’accettazione di un nuovo tipo di gusto è un processo lungo, che a malapena avviene nell’arco della vita di una persona – figuriamoci di una popolazione intera. Dal punto di vista burocratico il controllo e la successiva immissione sul mercato di un prodotto completamente nuovo prevedono iter lunghi e tortuosi. È quello che accade, per esempio, agli alimenti vegetali che imitano la carne ma stampati in 3D – un altro filone di alimenti consigliato dalle autrici nel libro. Un cibo di questo tipo risulterà più salutare per l’essere umano perché privo di antibiotici, e migliore per gli animali e per l’ambiente perché non richiederà allevamenti intensivi per la sua produzione. Inoltre, vi sono processi emotivi alla base che sono difficili da scardinare: se la gratificazione che giunge dal nuovo cibo è sensoriale e immediata, è più facile che questo venga integrato nella nostra dieta. Se gli scopi sono più razionali e a lungo termine, come lo è quello di combattere la crisi climatica, allora l’integrazione è difficoltosa, e i cibi “strani” diventano al massimo uno sfizio occasionale anziché fare il loro ingresso nell’alimentazione.
L’unica certezza è che c’è sempre spazio per il dolce: si tratta di “sazietà sensoriale specifica”, ossia un fenomeno che nuovamente trae origine dal tempo degli ominidi. Dopo aver assimilato una serie di cibi con caratteristiche nutrienti simili, era vantaggioso per i primi Homo Sapiens aggiungere al pasto alimenti diversi, con sostanze nutritive diverse, per aumentare l’apporto totale di nutrienti. A questo meccanismo, oggi, si aggiunge un discorso di tipo sensoriale: dopo i colori, i suoni e gli odori delle portate salate, il dolce crea uno stacco completo, a cui il nostro cervello non sa dire di no.
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