La massima tensione si era raggiunta lo scorso anno quando l’americanissima Smithfield Foods*, uno dei principali produttori di carne di maiale al mondo, era stata acquistata da capitali cinesi. La mossa aveva messo in chiaro una questione che era passata per troppo tempo inosservata: gli Stati Uniti stavano diventando il luogo in cui Pechino allevava e produceva le sue salsicce e le sue braciole. E bastava dare uno sguardo veloce ai volumi degli scambi commerciali tra i due paesi per rendersene contro. Dal 2003 al 2012 il trasporto di carne di maiale dall’America verso il paese orientale è aumentato in maniera incontrollata: da 57.000 tonnellate si è passati a 430.000, che oggi rappresentano circa un quinto dell’export totale del settore in Usa.
Ma perché i più grandi mangiatori di costine al mondo (ne consumano circa 44 chilogrammi a persona all’anno contro i 30 degli Usa) hanno deciso di mettere le mani proprio sul maiale statunitense? Mother Jones dà una spiegazione interessante sia in termini di risparmio – tutto nelle tasche di Pechino – che di costi per l’intero pianeta.
In primo luogo si deve mettere da parte lo schema Cina-poco-costoso-Usa-e-occidente-molto-costoso. Se l’equazione vale per qualsiasi tipo di prodotto industriale: dalle scarpe da ginnastica, all’abbigliamento ai dispositivi elettronici, la stessa cosa non si può dire per la carne. Facendo riferimento ai dati del dipartimento dell’Agricoltura americano, in America produrre mezzo chilo di carne costa 0,57 dollari, contro gli 0,68 dollari in Cina. Per quale motivo? Allevare un maiale negli Stati Uniti costa il 25% in meno che in Cina perché nel nuovo mondo si ha terra in abbondanza, acqua a fiumi e molto mangime.
Oltre a questo sembra che gli americani nutrano sempre meno interesse per la carne di maiale. Nel 1999 il suo consumo ha raggiunto il picco per poi iniziare a diminuire: il dipartimento dell’Agricoltura americano ha stimato che entro il 2022 l’esportazione di salsicce aumenterà del 33%. E ancora bisogna ricordare l’altissimo inquinamento del territorio cinese: il 40% è colpito da erosione e il massiccio uso di fertilizzanti ha reso i terreni poco produttivi. Insieme a questi due motivi va sottolineato il problema dell’acqua, visto che il 75% dei fiumi cinesi sono altamente inquinati.
A tutto questo si aggiunge l’emergere di una classe media che ha sempre più timori sulla qualità del cibo prodotto in patria e chiede alternative, soprattutto dopo le decine di scandali scoppiati. “La carne di maiale americana è particolarmente popolare e viene pagata un prezzo superiore perché percepita di alta qualità”, si legge su Bloomberg Businessweek.
Ma se l’affare può essere buono per l’export non lo è per gli Stati Uniti: l’aumento della produzione industriale di carne di maiale porta a un aumento dell’inquinamento (proprio la scorsa settimana la Casa Bianca ha pubblicato i dati delle emissioni di metano, il 30% di esse proviene dal settore dell’allevamento). Non solo: significa anche il rischio di paghe più basse per gli operai del settore e anche l’aumento dell’interesse della Cina per i metodi produttivi americani e dell’importazione di mangimi dagli Usa, con le scorte di soia ridotte ai minimi termini. Per allevare maiali, polli e mucche Pechino acquista il 60% della produzione mondiale di soia. Tra poco il paese orientale si dovrebbe anche aprire all’importazione di mais. E chi è il principale produttore mondiale? Gli Stati Uniti ovviamente, che oltre a parco giochi finanziario per i nuovi miliardari cinesi si stanno trasformando nel giardino di Pechino.
*Smithfield Foods. Con 26 sedi è il più grande produttore di carne di maiale negli Stati Uniti: nel settembre 2013 è stato comprato da Chinese group Shuanghui per 7,1 miliardi di dollari, il più grande acquisto da parte del paese orientale di una azienda americana. Ha 46,000 dipendenti in tutto il mondo per un giro d’affari di 13 miliardi di dollari.
Da New York, Angelo Paura