Anche se si sta gridando all’apocalisse a causa delle immagini che arrivano dai satelliti e che raccontano del fumo denso causato da incendi nella foresta pluviale più grande del mondo, l’amazzonia non sta bruciando più del solito, ma questo non significa che non stia scomparendo a ritmi incredibili. La politica anti-green del presidente Bolsonaro viene accusata da sempre dagli ambientalisti, di recente il direttore dell’ INPE, ossia Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile, è stato licenziato dopo aver espresso le sue preoccupazioni per lo stato degli incendi sempre più intensi a danno della foresta.
INPE ha contatto, da gennaio ad oggi, circa 39.033 incendi nelle zone coperte dalla foresta e un totale di 74mila incendi in tutto il Brasile. Dati non di certo rassicuranti. I roghi registrati ad agosto negli stati di Amazonas sono stati 6.701 e in quello di Rondônia 7.191: sono in aumento rispetto allo stesso mese nel 2018, 2017 e 2016.
Ma perché la foresta brucia? Per la maggior parte dei casi a causa dell’uomo e della necessità di creare spazi nuovi per l’agricoltura. Come spiega Il Post: “Quella amazzonica è una foresta pluviale (la più grande del mondo) e quindi, come suggerisce il nome, non è mai un ambiente secco: per questo non ci sono quasi mai incendi spontanei, ma solo incendi appiccati dalle persone. C’è comunque una stagione delle piogge e una stagione secca, che va avanti da giugno a novembre. In questo periodo dell’anno è comune che gli agricoltori approfittino delle minori piogge e usino il fuoco – in modo legale o meno – per ottenere terre da coltivare e pascoli, sottraendole alla foresta. Sono poi comuni gli incendi appiccati da chi compie disboscamenti illegali: si dà fuoco agli alberi per far allontanare le popolazioni indigene che vivono nella foresta o per nascondere le prove delle proprie attività di deforestazione.”
Spazi per coltivare, ma che cosa? La soia. Secondo dati Wwf, Stati Uniti, Brasile e Argentina producono l’80% della soia a livello mondiale e la domanda è aumentata di 15 volte rispetto agli anni Cinquanta. Nel documentario “Soyalism”, questa situazione e le sue conseguenze catastrofiche sull’uomo e sull’ambiente sono evidenti. “L’80% della soia prodotta in Brasile è esportata in Cina per essere utilizzata come alimento per gli animali degli allevamenti intensivi”, si spiega.
Il sistema produttivo in atto non è sostenibile: questo dato è ormai incontrovertibile, ed è stato confermato anche dal recente rapporto dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa della valutazione dei cambiamenti climatici, frutto di due anni di lavoro da parte di 107 esperti provenienti da 52 Paesi: “Per limitare l’innalzamento della temperatura globale a 2°C – si legge chiaramente nel report – è necessario un cambiamento diffuso delle abitudini alimentari verso diete a basse emissioni di carbonio, che prevedano un consumo maggiore di vegetali e frutta e una sostanziale riduzione di consumi di carni rosse”.
Quel fumo, quegli incendi, sono dunque semplicemente una manifestazione tangibile delle scelte che compiamo a tavola, anche se sembra così “strano” e lontano il collegamento fra le due situazioni. Se la popolazione non modificherà le sue abitudini alimentari (e non solo, riducendo o eliminando, l’uso della plastica, per esempio), il processo con il quale si sta tentando di arginare il danno all’ambiente già in corso, non avrà nessuna speranza di poter ottenere veri risultati.