Soffice, biodegradabile e, ovviamente, crueltyfree. È la fibra di soia, un tessuto naturale ricavato dagli scarti della lavorazione dei baccelli e delle bucce della soia per uso alimentare, conosciuto anche come “cashmere vegetale” proprio per la sua morbidezza.
Messo a punto alla fine degli anni Novanta da un industriale di Shanghai, Li Guanqi, per produrre biancheria intima, la Soybean Protein Fibre si è rivelato nel tempo un tessuto molto versatile: ha una grammatura leggera, ma è resistente ed elastico, è poco infiammabile, traspirante e antibatterico, la sua brillantezza ricorda quella della seta e si combina bene con gli altri tessuti, dal cotone alla lana. I capi in tessuto di soia si lavano tranquillamente sia a mano che in lavatrice e spesso non richiedono stiratura. In più, la fibra di soia risulta molto confortevole perché costituita da amminoacidi affini a quelli del corpo umano, in grado di conferire una sensazione di protezione alla pelle.
Insomma, un tessuto dalle grandi potenzialità già molto usato in Cina, al quale anche i produttori di filati, le case di moda e i designer occidentali, compresi quelli italiani, stanno iniziando a interessarsi considerandolo una sorta di alternativa “ecologica” ai tessuti tradizionali. Ma è davvero così? La possibilità di impiegare gli scarti della lavorazione di un prodotto tanto diffuso quale è la soia rappresenta sicuramente un vantaggio dal punto di vista della riduzione degli sprechi, ma bisogna ricordare che, proprio come nel caso dei prodotti alimentari a base di soia, anche questa fibra può essere estratta dalla varianti di soia geneticamente modificata, senza considerare che il processo industriale attraverso il quale viene ricavata risulta abbastanza complesso, soprattutto sotto il profilo energetico. Anche in questo caso, dunque, vale la regola di sempre: controllare l’etichetta e accertarsi della provenienza sia del filato che del prodotto finito che si va ad acquistare.