È dai tempi delle “uova di galline allevate all’aperto” che le aziende hanno scorto all’orizzonte l’inevitabile – quanto spesso superficiale – attenzione dei consumatori al benessere degli animali che poi diventeranno cibo. Al momento, però, in Italia non esiste ancora un sistema di etichettatura che possa garantire a chi compra questi prodotti di sapere da dove arrivino gli animali da cui sono tratti, ossia se da un allevamento estensivo, detto anche pascolo, o da uno intensivo. Eppure se ne parla da tempo.
I dati e le cose fatte
Secondo l’associazione CIWF Italia, nel nostro paese vengono allevati 620 milioni di animali ogni anno e di questi 565 milioni sono quelli che, secondo una stima, arrivano da sistemi di allevamento intensivo. Questo è inevitabile dato che la produzione deve essere massiva e che i prezzi devono rimanere bassi. Fin dalla sua nascita, infatti, l’allevamento intensivo o industriale ha avuto questo scopo: produrre più merce con meno sforzo umano e meno costi per l’allevatore e, quindi, per il consumatore.
Ma qual è la situazione attuale per il monitoraggio e la valutazione della situazione degli animali allevati in Italia?
Prima della nascita nel 2019 del sistema ClassyFarm – di cui parleremo fra poco – il Ministero della Salute finanziò la nascita del Centro di Referenza Nazionale del Benessere Animale (CReNBA) presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, grazie al quale da circa 10 anni vengono realizzate una serie di check-list, chiamate semplicemente CReNBA, specifiche per specie animale nel caso delle vacche da latte, specializzate per la stabulazione fissa o libera. “Negli anni – spiega in un articolo sul portale Ruminantia, Alessandro Fantini – sono stati formati e abilitati al loro utilizzo tutti quei veterinari che ne facevano richiesta. In questa lista possiamo trovare liberi professionisti e dipendenti dell’industria e di altre organizzazioni, sia pubbliche che private. Molte sono le aziende lattiero-casearie e della carne e i Consorzi di Tutela che hanno inviato a loro spese veterinari abilitati a valutare il benessere dei loro conferenti e dei loro associati. Pochi, credo, siano gli allevatori che spontaneamente, e a loro spese – continua Fantini – hanno richiesto una valutazione CReNBA del proprio allevamento al fine di migliorare il benessere dei loro animali per fini economici o solo morali, e sarebbe utile accertarne in maniera costruttiva le motivazioni”.
Dopo il sistema CReNBA, appunto nel 2019, arriva ClassyFarm, ossia, come si legge sul sito di riferimento, “un sistema integrato finalizzato alla categorizzazione dell’allevamento in base al rischio. È una innovazione tutta italiana che consente di facilitare e migliorare la collaborazione ed il dialogo tra gli allevatori e l’autorità competente per elevare il livello di sicurezza e qualità dei prodotti della filiera agroalimentare”. Questo ennesimo portale, il cui utilizzo è sempre a base volontaria, permetterebbe di risparmiare tempo al Ministero della Salute nella valutazione delle situazioni di rischio negli allevamenti.
Insomma, le informazioni che arrivavano da CReNBA sono migrate su ClassyFarm e in più si attendono nuove adesioni al portale e quindi nuovi dati. “La nuova piattaforma – si legge sempre sul sito – elabora i dati raccolti dall’autorità competente durante lo svolgimento dei controlli ufficiali, quelli messi a disposizione da sistemi già in uso e, quelli dell’autocontrollo resi disponibili dall’operatore, su base volontaria.” I controlli però, viene specificato, vengono fatti in ogni caso, sia che si aderisca al sistema volontariamente che il contrario: “Laddove l’operatore non aderisca, ogni allevamento censito con il sistema Nazionale Veterinario, esclusi quelli per autoconsumo o familiari, sarà comunque categorizzato in base al rischio considerando almeno i dati le informazioni derivanti dall’attività del controllo ufficiale e dai sistemi informativi già in uso”.
E le etichette, quindi?
Questo lo stato dell’arte, ma per ora nessuna nuova sul sistema delle etichettature. Secondo Greenpeace, però, il rischio che queste eventuali indicazioni sulle confezioni rimangano solo una bella coltre di nebbia rassicurante e paternalistica, sono alte: “A giudicare dalle informazioni – poche e frammentarie – rese note finora dai ministeri competenti, i criteri scelti sono assolutamente insufficienti a garantire un reale miglioramento del benessere animale. Le nuove etichette rischiano così di essere fuorvianti, illudendo le persone di poter acquistare prodotti più rispettosi del benessere animale, e penalizzanti per gli allevatori virtuosi, già impegnati in una vera transizione dei sistemi di allevamento, i cui prodotti verrebbero equiparati a quelli provenienti dagli allevamenti intensivi. Basti pensare ad esempio – continua Greenpaece – che secondo i criteri previsti attualmente, per ottenere la certificazione di “benessere animale” basterebbe allevare un suino di 170 kg in poco più di un metro quadrato di spazio (il minimo stabilito dalla legge), o che tra le misure ammissibili rientrerebbero anche interventi come la costruzione di biodigestori per i liquami zootecnici. Una misura, quest’ultima, che non solo non ha nulla a che vedere con il benessere animale, ma che spesso richiede contesti con densità molto elevate, in cui il benessere animale e la sostenibilità difficilmente possono essere garantiti”.
Insomma, sarà decisamente difficile veder comparire etichettature che possano indicare se la carne con la quale è realizzata una cotoletta arriva da un pollo allevato in regime intensivo o meno, o se una bistecca sia stata realizzata con la carne di un manzo proveniente da un pascolo oppure da un allevamento a stabulazione fissa (ossia quello nel quale gli animali occupano sempre lo stesso spazio detto posta e sono legati ad una rastrelliera).