Vegolosi

“Le Sang des bêtes”, storia di un mattatoio nella Parigi del 1949

Nel 1949 Georges Franju realizzò un piccolo film documentario di una ventina di minuti, in bianco e nero, quasi muto intitolato Le Sang des bêtes (“Il sangue delle bestie”): storia di un mattatoio parigino. All’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, questo film ci racconta che in fondo, nei macelli parigini, morte, schiavitù, distruzione e guerra sono verità ancora tragicamente attuali.

Georges Franju nasce come scenografo teatrale. Come tale ha imparato che ogni scena e ogni fotogramma sono un mondo finito, a sé, già portatori di un ben preciso significato spesso più pregnante e denso di informazioni di un’intera pagina di dialogo. Ciò che la macchina da presa inquadra, ciò che viene mostrato allo spettatore e ciò che gli viene nascosto, la posizione in cui gli oggetti di scena si trovano, non sono semplici variabili estetiche, ma stanno al cinema come le parole stanno alla poesia e alla letteratura.

Come la maggior parte dei registi nati e cresciuti nella generazione che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale, anche Franju ha risentito molto dell’influenza dell’Espressionismo tedesco e delle opere di maestri quali Murnau (Nosferatu) e Lang (Metropolis); a dispetto della serietà dei temi trattati nei film (e nelle opere pittoriche) di questa corrente, lo stile utilizzato per raccontare la realtà è tutt’altro che realistico: scenografie distorte come in un sogno, atmosfere surreali e gotiche, effetti speciali che pescano le loro ispirazioni dalla psicanalisi, trasformano i film espressionisti in favole nere.

L’opera stessa di Franju che ha oscillato sempre tra Espressionismo e Surrealismo francese, abbandona per la prima volta, con questo film, il continuo sconfinamento tra realtà e immaginazione, incubo, fantasia, paradosso per focalizzarsi sul mondo vero, crudo, tragicamente reale.

Il documentario si apre con le toccanti immagini di una Parigi post bellica e di una popolazione piegata ma che dimostra grande forza d’animo e onestà di spirito: dai bambini che giocano, alle coppie che si baciano, alla musica allegra che suona sopra le immagini di cianfrusaglie che arricchiscono l’inquadratura di dettagli decorativi. Tutto sembra inneggiare alla vita dopo la morte della guerra, alla ricostruzione, alla rinascita e alla pace, fino a quando dai sobborghi di Parigi non ci si sposta all’ingresso di un macello.

Un uomo conduce un grande cavallo bianco in uno spazio aperto recintato. L’uomo è tranquillo, l’animale inconsapevole. Poi, all’improvviso, una pistola captiva viene appoggiata sulla fronte del cavallo, che stramazza al suolo, morto. I lavoratori incaricati tagliano la gola all’animale mentre il sangue, nero come la pece, fuoriesce come un grande fiume oscuro. Il cavallo viene trascinato all’interno del capannone e preparato per essere scuoiato. Per un secondo la bestia giace sulla schiena, un’orrenda somma di membra esanimi in una posizione innaturale, con le ferite aperte e con gli occhi tondi e neri che guardano verso la camera. Immagini grottesche, sapientemente condotte dalla colonna sonora che durante tutto il film passa dal silenzio, ai fischiettii degli operai, al tonfo sordo di una caduta, al pianto degli animali condannati.

Ciò che Franju ci mostra è la sistematica e industrializzata distruzione e trasfigurazione della vita con l’aggravante di essere giustificata dalla società e onorata dalle tradizioni; è così accettata questa carneficina di massa che anche le infrastrutture nascono e migliorano per renderla più veloce e aumentarne il rendimento: ponti, treni collegano i macelli ai mercati, gli allevamenti ai supermercati.

Non è difficile ricondurre queste tragiche immagini in bianco e nero di schiavitù, giogo e assassinio all’Olocausto (parallelismo ripreso da Peter Singer). Pare infatti che una possibile fonte di ispirazione per Le Sang des bêtes sia stato il film di propaganda del 1945 di Billy Wilder, The Death Mills, realizzato proprio allo scopo di raccontare e denunciare le atrocità naziste e le agghiaccianti pratiche che nei campi di sterminio venivano perpetrate dai gerarchi nazisti.

 

Le Sang des bêtes non è però solo un film che dipinge la realtà scioccante della schiavitù animale ma è soprattutto un film sui modi in cui l’umanità può accettare e istituzionalizzare azioni talmente crudeli da sembrare surreali. Si chiede Franju: è accettabile che un uomo in giacca e cravatta posi di fianco a un cavallo squartato e per degli operai di canticchiare e fischiettare mentre tagliano delle gole a animali innocenti c’è da stupirsi che il genere umano sia arrivato al punto di collezionare macabri trofei di guerra nei campi di prigionia?

Serena Porchera

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