Lo scorso 30 novembre, 5 nazioni che si affacciano sull’Oceano Artico (Stati Uniti, Russia, Canada, Norvegia e Danimarca in rappresentanza della Groenlandia), 4 nazioni che per secoli hanno perpetrato attività di pesca in questo mare (Cina, Giappone e Corea del Sud) insieme con l’Unione Europea, hanno firmato un fondamentale accordo che vieta per almeno 16 anni la pesca a scopo commerciale (o comunque fino a che non si avranno sufficienti informazioni sull’ecologia marina dell’area) in queste acque. Dopo i primi 16 anni sarà rinnovato automaticamente ogni 5 anni, a meno che uno degli stati firmatari non ponga obiezioni.
La zona protetta
La notizia è stata accolta in tutto il mondo come un risultato storico – frutto di trattative e tentativi di accordo durati due anni -, necessario per proteggere 2,8 milioni di km quadrati di oceano che si estende dall’Alaska al territorio russo della Chukotka, una delle aree più colpite dal cambiamento climatico.
Si trattava un tempo di una zona praticamente inaccessibile poiché ricoperta da una spessissima crosta di pack artico (che forma la calotta glaciale artica), ma per via del cosiddetto fenomeno del Permafrost (ossia lo scioglimento dei ghiacci perenni per via del surriscaldamento globale), ora è in estate perfettamente percorribile da imbarcazioni umane.
I margini di questa immensa distesa ghiacciata non solo si sciolgono stagionalmente, ma nelle ultime estati il fenomeno è stato così intenso che circa il 40 per cento delle acque dell’Artico è libero dai ghiacci. Questa allarmante trasformazione ambientale ha fatto così che la pesca in questi mari diventasse critica: la minore presenza dei ghiacci infatti fa sì che i raggi solari non siano riflessi e penetrino in profondità, favorendo la crescita di maggiori quantità di plancton, alla base dell’alimentazione, tra gli altri, del merluzzo artico. La popolazione di merluzzo artico è aumentata così notevolmente scatenando l’interesse delle grandi compagnie internazionali di pesca che hanno fatto a gara per raggiungere queste aree diventate in pochi anni molto più pescose, e soprattutto accessibili.
Un accordo necessario
L’ecosistema che popola le acque artiche è ancora per molti tratti sconosciuto a scienziati e ricercatori. L’accordo e il divieto di pesca sono assolutamente fondamentali sia per conoscere meglio la ricchissima fauna che popola questa zona, sia per trovare in tempo una soluzione valida a una catastrofe ecologica di portata mondiale. “Questa è una delle rare occasioni in cui un gruppo di governi ha effettivamente risolto un problema prima che si verificasse“, ha detto a Reuters David Balton, l’ambasciatore statunitense per gli oceani e la pesca.
Del resto, il consumo di proteine nel mondo, anche derivanti dalla fauna ittica, sta purtroppo aumentando. Per questo, sia le nazioni artiche che quelle più lontane dal polo erano pronte a banchettare con le risorse naturali della regione man mano che il riscaldamento globale avesse aperto nuove rotte di navigazione fondendo i ghiacci marini. In base all’accordo, invece, i paesi firmatari faranno parte di un programma di ricerca scientifica comune che dovrà censire la fauna marina della regione. Una buona notizia?
Le leggi internazionali non prevedono restrizioni particolari per la pesca in tratti di mare che non sono proprietà di nessuno stato. Per questo sarebbe possibile pescare nel Mar Glaciale Artico senza infrangere alcuna legge, nemmeno a tutela o a favore della preservazione degli ecosistemi marini. Dal punto di vista ambientale questa assenza di legislazione sarebbe una tragedia e la Storia ce lo ha già insegnato: alla fine degli anni Ottanta, Giappone e Cina pescarono senza sosta grandi quantità di pollack, noto anche come merluzzo giallo o d’Alaska, nello Stretto di Bering, tra la Russia e gli Stati Uniti; una pesca indiscriminata e talmente intensiva che, dopo 30 anni, la popolazione di questo pesce nella zona non è ancora a livelli accettabili per dichiararlo fuori pericolo rispetto ad una sua possibile estinzione.
Per questo la moratoria è sicuramente una buona notizia, anche se, come sottolinea il Post, non manca di rivelare fini non propriamente scientifici da parte dei paesi che l’hanno approvata. Negli ultimi anni infatti diverse ricerche hanno dimostrato che una pesca intensiva nell’Artico avrebbe causato una sensibile riduzione della pescosità di altri tratti di mare, tratti in cui la pesca è molto più facile e molto meno dispendiosa. Non vi è quindi alcun vantaggio economico nel minacciare zone di pesca così abbordabili per espandersi in zone impervie e costose.