Un successo, a metà. Ci sono gli impegni, ma meno ambiziosi del previsto e non vincolanti. C’è il cronoprogramma, che segna tuttavia tempi molto lunghi. C’è, però, anche la sensazione di una rinnovata e più forte attenzione rispetto alle istanze ambientaliste che fa ben sperare, soprattutto in termini di approccio culturale al problema. Non ci sono, tuttavia, come era stata denunciato da più parti fin dall’inizio, l’agricoltura e gli allevamenti. Sabato scorso si è chiusa a Parigi Cop21, la conferenza internazionale sul clima, che ha portato a un accordo definito da più parti “storico” eppure, come hanno evidenziato in molti, segnato da numerose contraddizioni.
Cosa prevede l’accordo
L’accordo finale sottoscritto a Parigi da 195 Paesi pone come obiettivo il contenimento “dell’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali” e l’impegno “a proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura di 1,5 °C”. Tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere” degli impegni definiti a livello nazionale, con revisioni regolari che “rappresentino un progresso” rispetto agli impegni precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile”. Tali piani nazionali dovranno essere presentati o aggiornati in base a quanto previsto dall’accordo entro il 2020, con aggiornamenti successivi ogni 5 anni, e una prima verifica dell’applicazione degli impegni fissata al 2023. L’accordo, che obbliga i Paesi a presentare i propri piani ma non prevede sanzioni per chi non li rispetterà, chiede inoltre ai Paesi sviluppati di mettere a punto una road map per stanziare entro il 2020 100 miliardi di dollari da mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per sostenerne le politiche di contenimento delle emissioni impegnandosi ad aumentare progressivamente tali risorse.
Una corsa contro il tempo
La comunità scientifica internazionale ha riconosciuto la presa di posizione dei Paesi a favore dell’abbandono progressivo dei combustibili fossili sancita dall’impegno a raggiungere la “neutralità” delle emissioni nella seconda metà del secolo, ma ha espresso dubbi riguardo soprattutto ai tempi previsti dal documento di Parigi, considerati troppo lunghi, e alla mancata indicazione di misure davvero stringenti. Stando alle prime analisi, infatti, i piani per il contenimento delle emissioni di gas serra presentati dai Paesi prima dell’avvio di Cop21 sarebbero insufficienti a centrare l’obiettivo del contenimento dell’aumento di temperatura a 2 gradi. “Secondo le prime valutazioni, questi impegni, se rigorosamente attuati, sono sufficienti a ridurre di circa un grado il trend attuale di crescita delle emissioni di gas-serra con una traiettoria di aumento della temperatura globale che si attesta verso i 2.7- 3°C”, osserva Mauro Albrizio, direttore dell’ufficio europeo di Legambiente. “Pertanto, è cruciale una revisione di questi impegni non oltre il 2020. Purtroppo l’accordo lo prevede solo su base volontaria, rimandando al 2023 la prima verifica globale degli impegni. È una corsa contro il tempo, non possiamo perdere altri otto anni”.
I grandi assenti
L’accordo non contiene indicazioni vincolanti nemmeno sul tema dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi. “Ancora nessuna parola sulla stretta relazione tra agricoltura, sistemi alimentari e clima”, osserva Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia. Alla vigilia di Cop21, l’associazione aveva lanciato la petizione “Non mangiamoci il clima” per una revisione dell’agenda della conferenza di Parigi che prendesse in considerazione il rapporto tra agricoltura e clima. “Molti punti che erano ritenuti fondamentali sono stati annacquati. Tuttavia – osserva Pascale – porta con sé alcuni aspetti positivi. Prima di tutto la sensazione che ci sia più attenzione alle istanze ambientaliste proposte con forza in questi anni in tutte le piazze del mondo”. La questione è stata sollevata anche dalle associazioni animaliste. “L’accordo di Parigi, centrato in prevalenza sulla questione dei combustibili fossili, lascia aperta la questione del massiccio contributo dell’agricoltura alla produzione dei gas serra, con il sistema degli allevamenti causa del rilascio in atmosfera di una percentuale di emissioni climalteranti compresa – a seconda delle metodologie di valutazione – tra il 18% e il 51%. Porre in primo piano questa indiscutibile realtà, con l’adozione delle conseguenti strategie d’intervento- evidenza l’ENPA – avrebbe reso l’intesa davvero forte e ambiziosa”.
“Essenziale” per raggiungere l’obiettivo di Parigi è “ridurre il consumo di carne“, ribadisce anche Ciwf International. “Una significativa riduzione del consumo di carne e prodotti lattiero-caseari è vitale se dobbiamo colmare la differenza fra gli impegni attuali di riduzione delle emissioni di gas serra e il molto maggiore decremento necessario per raggiungere l’obiettivo di Parigi. Una dieta salutare con minor consumi di carne e prodotti lattiero-caseari – evidenzia il direttore generale Philip Lymbery – potrebbe produrre circa il 40% della riduzione aggiuntiva delle emissioni necessaria a raggiungere l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2°C”.
Un passo avanti?
Scettico su quanto previsto dall’accordo è anche il climatologo italiano Luca Mercalli. “È solo burocrazia climatica. È tutto tempo perso, siamo già in ritardo”, dice. Eppure, “Cop21 può stimolare un cambiamento dal punto di vista culturale e dell’acquisizione di responsabilità da parte di tutti. Come abbiamo visto anche con l’enciclica di papa Francesco Laudato si’ – sottolinea Mercalli – è più un problema etico che politico. I trattati sono asettici e, anche se le leggi possono aiutare, sono le persone che devono rendersi conto che il futuro dipende dalle scelte di tutti”.
Silvia De Bernardin