Se il presidente di una delle più grandi aziende che produce carni lavorate e hamburger sostiene che la carne in vitro e quella di origine completamente vegetale vanno bloccate perché il loro nome potrebbe ingannare i clienti, gli effetti sulla salute non sono ancora stati verificati e l’impatto sull’ambiente non è poi così terribile, come fare a non dare credito alle sue parole?
Durante un workshop tenutosi all’interno del Villaggio Coldiretti a Roma, è stato Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Inalca (gruppo Cremonini) a tenere banco sul tema della carne in vitro e su quella a base vegetale. L’impressione è solo quella della voglia di trovare un motivo per dire “no” a queste soluzioni, anche se di motivi, praticamente, non ne esistono.
Inquinamento? Non è colpa degli allevamenti
Secondo Scordamaglia “L’allevamento è all’origine del 15-18% delle emissioni globali ed è assurdo quindi ignorare i veri responsabili della crisi climatica in corso, come il settore dei trasporti e quello energetico”. Scordamaglia sembra dimenticare i dati della FAO e quelli dell’Organizzazione Mondiale della Salute che spiegano in chiaro su ogni sito a loro facente riferimento che il problema dell’impatto dell’allevamento intensivo sull’ambiente non è esattamente l’ultima cosa a cui pensare, come sembra fare intendere Scordamaglia. E’ forse questo il motivo per il quale decine di aziende in tutto il mondo, fra le più importanti, stanno investendo in soluzioni per allontanarsi dal modello ottocentesco della produzione industiale di carne.
E se le persone non capissero?
E poi di nuovo il “pericolosissimo” problema del “meat sounding”: bisogna fare attenzione affinché le denominazioni sui pacchetti di burger vegetali e simili non confondano il cliente che, magari, crede di star comprando carne “vera”. La battaglia è stata aspra anche sul “latte vegetale“, ma nonostante la sentenza della Corte Europea abbia stabilito che nelle pubblicità “latte vegetale” non si può dire, i dati sul suo consumo non sembrano aver subito nessuna inflessione: insomma, forse i consumatori sapevano che quello di riso o di soia, non erano “latte” di mucca e hanno deciso di berlo in ogni caso.
La “fattoria Italia” ha dei problemi
Al centro dell’attenzione di Coldiretti e Federalimentare, la necessità di bloccare la carne 100% vegetale fino che non ci saranno leggi adeguate e conoscenze sui prodotti. Un modo per cercare di arginare un fiume che non si ferma e i motivi reali di questa paura sono chiarissimi nelle dichiarazioni di Roberto Moncalvo, Presidente di Coldiretti: “Negli ultimi dieci anni la fattoria Italia (sic) ha perso 1,7 milioni di animali fra mucche, maiali, pecore e capre. Quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere lo spopolamento”. Peccato che ancora, l’immagine idilliaca di allevamenti che pastori che cercano di tenere vive le tradizioni, cozzino con le immagini degli allevamenti intensivi che sono alla base del sistema produttivo italiano e internazionale.
“Cara bistecca ti scrivo…”
La carne vegetale non va bene perché non è chiaro cosa sia davvero (ma invece lo è), la carne in laboratorio costa troppo e potrebbe non essere ricca di nutrienti (potrebbe) e poi non va comunque bene niente perché i nomi sulle scatole (di prodotti che ancora non ci sono) non sono chiari e il pubblico potrebbe davvero confondersi e comprare qualcosa che non voleva comprare. Nessuna menzione durante il workshop dei dati dello IARC sul consumo di carne, soprattutto quella conservata (insaccati e carne in scatola) che vanno “evitati” per il bene della propria salute, o ai dati sulla probabile cancerogenità della carne rossa ed inserita, quindi dall’OMS nel gruppo 2A.
La conclusione per Coldiretti è: “Teniamoci la nostra cara bistecca, nelle giuste quantità, per preservare così ambiente e salute”. Evidentemente c’è chi ci crede ancora alle favole.