Vegolosi

Carne vegetale: alcune aziende tagliano i costi, ma è inutile parlare di “fine di una moda”

Beyond Meat e Impossible Foods stanno tagliando i propri costi aziendali dopo un anno che non è andato come doveva. Entrambe le società producono prodotti completamente vegetali che imitano, per consistenza e gusto, la carne di origine animale. Secondo il CEO di Beyond Meat (azienda anche quotata in borsa) “Sebbene riteniamo che gli attuali venti contrari che la nostra attività e la nostra categoria devono affrontare, inclusa l’inflazione record, siano transitori, la nostra missione, il marchio e le opportunità a lungo termine rimangono tali. Per gestire la situazione attuale e realizzare le opportunità che ci attendono, però, stiamo riducendo significativamente le spese e concentrandoci su una serie di priorità chiave di crescita”.
Le corse ai ripari di Impossible Foods sono meno trafelate, ma anche qui i tagli ci sono e si aggirano attorno al -6%.

Ma cosa sta succedendo? In realtà chi sta suonando le campane a morto per le “fake meat” fa male ad utilizzare queste due aziende come indicatore, primo perché non sono le uniche che producono questo tipo di alimenti, secondo perché le loro scelte aziendali potrebbero averle penalizzate al di là dello stato di salute della richiesta di alternative vegetali a livello mondiale. Se vediamo per esempio i dati di un’altra azienda di questo settore, Heura Foods,  startup spagnola fondata nel 2017 e che distribuisce i suoi prodotti anche in Italia,  il primo semestre del 2022 è stato chiuso con un fatturato di 14,7 milioni di euro, in forte crescita rispetto ai 7,6 milioni registrati nei primi sei mesi dello scorso anno. Il CEO di Heura, Bernat Añaños spiega: “Il mercato plant based meat in Italia oggi vale 113 milioni di euro e nel 2021 è cresciuto del 39% rispetto all’anno precedente; il mercato complessivo dei prodotti sostitutivi da proteine vegetali (latte di soia, pollo vegetale) vale 514 milioni, ma i numeri sono in crescita e il tasso di penetrazione nella Penisola è del 55%”.

In più non va dimenticato che sia in Europa che negli USA le grandi multinazionali hanno puntato questo settore creando di fatto una concorrenza quasi “sleale” alle aziende che si sono focalizzate solo sulla fake meat: pensiamo per esempio alle alternative vegetali commercializzate da Nestlé con la linea Garden Gourmet: questi prodotti hanno sfruttato la testa d’ariete creata dalle start up e, valutatone il successo, si sono proposte come alternative ad un prezzo inevitabilmente più basso e con una rete di distribuzione già enorme. Lo stesso vale per Findus in Italia.

Quella delle multinazionali entrate nel mondo del 100% vegetale con prodotti imitativi delle carne sono un chiaro indicatore di dove stia andando il mercato o, quanto meno, di quali richieste arrivino dai consumatori. E se è vero che Beyond Meat sta avendo dei problemi è chiaro dalle analisi che questi sono arrivati soprattutto dopo che l’azienda ha puntato moltissimo sull’accordo (saltato) realizzato con McDonald’s negli Stati Uniti: dopo l’ennesimo test di panini vegani, né la multinazionale del fast food, né Beyond Meat hanno annunciato un’ulteriore pianificazione di test o nuovi accordi. Il mercato americano sulla questione “carne finta” è ostico e il pubblico di quel tipo di fast food non è chiaramente un target che funziona, per ora.

Ulteriore e gigantesco problema è quello legato alla comunicazione da parte dei media. Sia a livello generale, ossia quando si parla di diete vegetali, sia quando si parla di questi prodotti il tema è sempre lo stesso: si parla di “carne finta” e certamente il termine “finto” (sia in italiano che in inglese) non ha una valenza positiva bensì è collegato all’idea – in contrapposizione – di qualcosa di vero, genuino e… sano. Inoltre non sembra arretrare la vegefobia, quell’atteggiamento che ritiene la scelta vegana una piccola “moda”, un capriccio, un modo per differenziarsi dagli altri, quando invece è una scelta politica, sostanziale, filosofica, culturale, etica e solo in seconda battuta di tipo salutistico.

Una riflessione molto interessante viene anche dal saggista e attivista vegano Tobias Leenaert che su un post social ha ipotizzato a quanto cambierebbe la comunicazione se solo nei ristoranti o sui mezzi di trasporto a lunga percorrenza, la prima opzione proposta, quindi quella di base, fosse quella vegana e quella onnivora rappresentasse una sorta di variazione sul tema.

Così come la scelta di un singolo VIP o influencer di abbandonare la scelta vegan per motivi più o meno sciocchi non significa nulla rispetto al valore di quella stessa scelta (ne abbiamo parlato qui), così la crisi di un’azienda che produce uno dei tipi di cibi vegetali presenti sul mercato non può essere intesa come segnale di una crisi generale dell’approccio reducetariano al consumo di carne che, va ricordato, è segnalato dall’IPCC come una delle chiavi per affrontare la crisi climatica.