Ormai è assodato da tempo, la strada sulla quale viaggiamo presto non sarà più percorribile: secondo la FAO, infatti, entro il 2050 ci saranno un terzo di bocche in più da sfamare nel mondo e, continuando a basare l’alimentazione umana prevalentemente su prodotti di origine animale, mancheranno le risorse. Mangiare carne e derivati non è più solo una scelta personale, ma ha a che fare in modo evidente con lo spreco di risorse, l’inquinamento globale e la scomparsa della biodiversità.
A dirlo sono alcune associazioni di importanza internazionale come il Worldwatch Institute, organizzazione di ricerca ambientale, Slow Food, che lavora a livello internazionale per ridare valore al cibo e perfino testate giornalistiche come il New York Times. Queste e altre istituzioni hanno fatto fronte comune contro gli allevamenti intensivi, un disastro globale al quale è necessario porre rimedio adesso, per salvare il pianeta. La soluzione è sotto gli occhi di tutti: ridurre drasticamente il consumo di carne, se non addirittura azzerarlo. Ma un mondo di soli vegani (in tempi davvero utili) è ancora una chimera, da qui la necessità di trovare alternative sostenibili alla carne.
Carne in vitro: l’alternativa alla carne, ma l’etica non c’entra
Da qualche anno a questa parte, però, sta cambiando qualcosa: da più parti del mondo si sta facendo largo, in risposta a questa esigenza, un fenomeno globale illustrato nel saggio “Clean Meat: How Growing Meat Without Animals Will Revolutionize Dinner and the World” di Paul Shapiro. L’autore, per primo, esplora in modo complessivo il mondo e il lavoro delle numerose start up americane che si occupano di creare prodotti animali senza l’impiego di animali. Sì, avete capito bene: la cosiddetta “carne pulita” (clean meat, appunto) non è un sostituto vegetale della carne come potrebbe esserlo la “carne vegana” di Bill Gates, a base di vegetali. Si tratta invece di un vero e proprio tessuto animale – identico per aspetto, sapore, consistenza e resa a quello reale – realizzato in laboratorio coltivando in vitro le cellule prelevate dal corpo di un animale, sia esso un pollo, un maiale o una mucca.
Il primo hamburger “pulito” è stato prodotto nel 2013 dal professor Mark Post, dell’Università di Maastricht: da allora si è aperto il sipario di un cambiamento che, come spiega Shapiro nel suo volume, porterebbe enormi vantaggi sotto molti aspetti. Immaginiamo di guardare un planisfero sul quale illuminare tutte le città in cui, da qualche anno, si sia iniziato a lavorare per produrre un’alternativa artificiale ai prodotti animali, carne in testa. Ci renderemmo conto che quei punti luminosi diventano sempre di più: anche se sono gli USA – e la Silicon Valley in testa – a farla da padrone, sono diversi i paesi dove si è manifestato (e si manifesta tuttora) l’impulso di rispondere a un problema tanto stringente.
Carne in vitro: è una moda?
A conferma del fatto che si tratti di un fenomeno ben lontano dall’essere passeggero o irrilevante, ci sono anche gli ingenti investimenti dei “big”: grandi nomi come Bill Gates oppure Jeremy Coller, uno tra i più influenti investitori del Regno Unito, che hanno investito nella start up americana Memphis Meats, dimostrano come il fenomeno sia destinato ad ampliarsi, anche e soprattutto dal punto di vista economico. Allora ecco comparire, tra gli altri, nomi come Memphis Meats, Impossible Foods o Perfect Day, che da qualche anno cercano di affrontare la questione creando alternative reali ai prodotti animali, pensate per la stragrande maggioranza dei consumatori che, non avendo intenzione o non essendo pronti a cambiare le proprie abitudini alimentari per motivi etici, da qui a poco dovranno necessariamente far convergere le proprie scelte sulle “alternative”.
Il modo in cui si alimenta la maggioranza della popolazione globale, infatti, non è più sostenibile e questo è sempre più evidente. Lo spiega, per esempio, anche il professor Pete Smith, che studia il tema dell’impatto dei nostri stili di vita e in particolare della nostra alimentazione sull’ambiente: consumare meno carne non è un’ideologia vegetariana o vegana, è una necessità imposta da dati scientifici incontrovertibili. L’etica animalista o la filosofia vegana, quindi, non c’entrano: la carne prodotta il laboratorio rappresenta, a oggi, l’unica risposta su larga scala a un’emergenza globale che non può aspettare le rivoluzioni di coscienza dei singoli.
Carne in vitro: è il futuro che ci attende?
Oltre a questo, è fondamentale tenere presente anche che il mercato sta cambiando, in risposta alle richieste dei consumatori: come dimostra uno studio compiuto tra il 2016 e il 2017 nel nostro paese, per esempio, in Italia è in crescita il consumo di alimenti considerati adatti alla dieta vegetariana e vegana, tanto che il loro giro di affari è cresciuto del 10,5% in un anno. E qui, davvero, l’etica e lo sfruttamento animale non c’entrano: si tratta semplicemente di uno spostamento dei consumi, lento ma costante, al quale il mercato è sempre più pronto ad adeguarsi. Ecco allora sempre più alternative vegetali sugli scaffali del supermercato, un’infinità di prodotti che chi è diventato vegano anche solo 5 o 6 anni fa mai avrebbe pensato di trovare. Maggiore offerta, maggiore acquisto, anche da chi vegano non lo è affatto: l’equazione è semplice.
Certo, mentre le alternative vegetali sono una realtà ormai consolidata almeno da qualche anno, la carne in vitro è ancora lontana dall’essere competitiva rispetto alla carne tradizionale: lo diventerà nel momento – forse non così lontano – in cui gli esperti saranno in grado di abbassarne i costi, produrla su larga scala e far fronte alle regolamentazioni imposte dalla burocrazia. Una volta raggiunti questi importanti traguardi e solo se la “carne pulita” sarà accolta favorevolmente dai consumatori (forse la più grande incognita per gli esperti del settore), allora potrà iniziare la rivoluzione alimentare di cui il nostro pianeta ha estremo bisogno.
Carne di pollo e anatra create in laboratorio: “Non è per vegani o vegetariani”