Nomi a parte l’idea è nata a Taichung, una città nell’ovest dell’isola di Taiwan. Da lì si è diffusa in tutto il mondo, prima in Cina (i cinesi sono affezionati al tè in tutte le sue forme) e poi a New York, grazie alle comunità straniere della metropoli. Qui è diventata una bevanda molto famosa, servita soprattutto fredda, con un po’ di latte, anche se – a parte le perle di tapioca – le sue varianti sono pressoché infinite.
La assaggio in una catena molto rinomata di cibo orientale scegliendo il gusto che mi dicono essere un classico: tè verde macha e latte. Sul fondo perle di tapioca. Per poter gestire la presenza di palline mi danno una cannuccia formato maxi attraverso la quale è possibile aspirare e gustare le perle nere. Mi chiedo anche quale siano i poteri magici della palle che vedo vendere senza sosta.
Il miscuglio è passato alla storia come un prodotto sano e nutriente (spesso perché unito a tè verde oppure a frullati). In realtà negli ultimi anni sono scoppiati diversi scandali, soprattutto perché molti degli ingredienti usati nei fast food del bubble tea potevano essere cancerogeni. E ancora il tè ha avuto così tanto successo che McDonalds (il Mac in persona) ha deciso di introdurre il prodotto in alcuni suoi ristoranti in Austria e Germania.
A Brooklyn la passione di milioni di hipster salutisti – che si trascinano da una lezione di yoga a un ristorante biologico a una conferenza sulla conoscenza del proprio io – ha provato a metterci una pezza. Negli ultimi anni sono nati diversi caffè che offrono dei sani pearl tea. Ce ne sono diversi nella zona di Fulton e Atlantic o lungo le vie di Carroll Garden, dove ho bevuto il mio primo boba.
Di certo anche se si punta su un bubble tea biologico resta sempre una controindicazione. Le perle soffici e gommose creano dipendenza. Un po’ come le vecchie Fruit Joy.
da New York Angelo Paura