È l’altra faccia della crisi climatica: la perdita di biodiversità, che galoppa veloce e coinvolge tanto la flora che la fauna indistintamente, in ogni parte del mondo. Lo certificano con evidenza anche i numeri diffusi nei giorni scorsi dal Living Planet Report (LPR) 2022 del WWF, secondo il quale l’abbondanza delle popolazioni di fauna selvatica risulta ridotta a livello globale, dal 1970 al 2018, del 69%. Un “calo medio devastante” – come lo ha definito il WWF – quello subìto dalle popolazioni di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci in tutto il mondo, tra le cui cause principali vengono annoverati i cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, lo sfruttamento eccessivo di piante e animali, il cambiamento climatico. E, ancora, l’inquinamento e le specie aliene invasive, le minacce provenienti da agricoltura, caccia e bracconaggio, e la deforestazione, particolarmente gravi ai tropici. E la situazione potrebbe anche peggiorare con l’andamento climatico: “A meno che non limitiamo il riscaldamento globale a meno di 2°C, o preferibilmente 1,5°C, è probabile – evidenzia infatti il WWF – che il cambiamento climatico diventi la causa principale della perdita di biodiversità e del degrado degli ecosistemi nei prossimi decenni”.
Un po’ di dati e qualche esempio
Tra i dati più allarmanti, quelli delle regioni tropicali, dove “l’abbondanza delle popolazioni di vertebrati selvatici monitorati sta crollando a un ritmo particolarmente sconcertante”, scrive il WWF, anche in considerazione del fatto che queste sono aree geografiche tra le più ricche di biodiversità al mondo. In particolare, i dati del LPI rivelano che tra il 1970 e il 2018 le popolazioni di fauna selvatica monitorate in America Latina e nella regione dei Caraibi sono diminuite in media del 94%. Numeri che non devono rassicurare noi europei, anzi. È proprio in Europa che l’integrità della biodiversità risulta più compromessa, mentre le regioni tropicali, che nel 1970 evidenziavano una situazione di partenza più intatta della nostra, hanno subito cambiamenti più rapidi nei relativi ecosistemi.
Se si guarda alle singole specie, invece, particolarmente preoccupanti sono i dati relativi alle popolazioni di acqua dolce che, in 50 anni, sono diminuite in media dell’83%: si tratta del più grande declino di qualsiasi gruppo di specie che ha come cause principali la perdita di habitat e le barriere alle rotte migratorie.
Come specifica anche il WWF, si tratta di dati complessi, anche per il lungo arco temporale interessato, e per i quali la variazione percentuale riflette la variazione media proporzionale delle dimensioni delle popolazioni di animali monitorate e non il numero di singoli animali persi o il numero di popolazioni perse. Ciò nonostante, rimangono i casi concreti raccontati nel Living Planet Report a evidenziare la gravità della situazione, come quello dei delfini rosa di fiume dell’Amazzonia, le cui popolazioni sono crollate del 65% tra il 1994 e il 2016 nella Riserva di sviluppo sostenibile di Mamirauá, nello stato brasiliano di Amazonas, o dei gorilla di pianura orientale, il cui numero ha subito un declino stimato dell’80% nel Parco nazionale di Kahuzi-Biega della Repubblica Democratica del Congo tra il 1994 e il 2019. O, ancora, dei cuccioli di leone marino dell’Australia meridionale e occidentale, il cui numero è calato di due terzi tra il 1977 e il 2019.
La necessità di un obiettivo nature-positive
Una doppia emergenza, dunque, quella climatica e quella della biodiversità, che necessitano di essere affrontate insieme, “due facce della stessa medaglia, causate dall’uso insostenibile delle risorse del nostro pianeta”, scrive nel report il WWF chiarendo che “se non smettiamo di trattare queste emergenze come due problemi separati, nessuno di essi sarà affrontato in modo efficace”.
E proprio all’approccio alla questione climatica si ispira l’appello rivolto dal WWF a livello globale per affrontare il problema della perdita di biodiversità. Come fu per l’Accordo di Parigi sottoscritto nel 2016 con l’impegno globale a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, anche per la biodiversità serve un piano “concordato a livello globale e attuato localmente”, spiega Marco Lambertini, Direttore generale WWF International. “Ma quale può essere l’equivalente di ‘zero emissioni nette’ per la biodiversità? Raggiungere zero perdite nette per la natura non è certamente sufficiente; abbiamo bisogno di un obiettivo netto positivo per la natura, per ripristinare la natura e non semplicemente fermarne la perdita. In primo luogo, perché abbiamo perso e continuiamo a perdere così tanta natura a una velocità tale che abbiamo bisogno di questa maggiore ambizione. E, in secondo luogo, perché la natura ci ha mostrato che può riprendersi – e rapidamente – se gliene viene data la possibilità”.
Ecco, dunque, l’obiettivo al quale puntare, indicato dal WWF: un mondo nature-positive entro il 2030 – “che, in parole povere – spiega ancora Lambertini – significa più natura entro la fine di questo decennio rispetto ad ora. Più foreste naturali, più pesci negli oceani e nei sistemi fluviali, più impollinatori nei nostri terreni agricoli, più biodiversità in tutto il mondo”. L’appello lanciato dal WWF è ad abbracciare la missione nature-positive facendone un obiettivo globale condiviso alla prossima conferenza della Convenzione sulla Diversità Biologica (COP15) delle Nazioni Unite, in programma a Montreal, in Canada, a dicembre, sotto la presidenza della Cina. Un accordo in “stile Parigi”, appunto, che “preveda un’azione immediata sul campo, anche attraverso la trasformazione dei settori che causano la perdita di natura, e il sostegno finanziario ai Paesi in via di sviluppo“.