Gli animali “felici”, allevati con metodi lontani da quelli degli allevamenti intensivi, producono una “carne felice”? Secondo la corrente di pensiero della Bio-violenza, no. Parliamo di un progetto nato dall’idea di alcuni attivisti di denunciare la “diminuzione della violenza” tipica degli allevamenti biologici e non intensivi, ma anche la neonata attenzione al benessere animale negli allevamenti delle grandi aziende. Pensiamo per esempio al recente caso di Rovagnati, che ha creato una linea di salumi pubblicizzati come “buoni, sani e giusti” anche per gli animali, oppure alle “stalle del futuro presentate a Ferrara, eco sostenibili e attente al benessere degli animali. Per i sostenitori del progetto, nulla di tutto questo ha senso: la “diminuzione della violenza” è vista semplicemente come una licenza alla violenza stessa perché, per loro, non conta la qualità della prigionia e dell’uccisione, in un mondo in cui prigionia e uccisione non dovrebbero semplicemente esistere.
Animali felici? Un’illusione per l’opinione pubblica
Secondo coloro che sostengono il progetto, l’obiettivo finale dell’attivismo deve essere “l’abolizione della schiavitù animale o la messa in discussione radicale dei rapporti uomo/ animali”, come affermano sul sito dedicato. Quello che sta accadendo oggi, ovvero la nascita di allevamenti “etici” che allevano animali “felici” e condotti verso una “morte dolce”, non sarebbe altro che un mezzo per “liberare i consumatori dai crescenti sensi di colpa per la partecipazione a un massacro inaccettabile”, come scrivono. La denuncia non tocca i grandi allevamenti intensivi perché lì lo scempio è sotto gli occhi di tutti; l’obiettivo è invece quello di togliere la polvere da sotto il tappeto, come si suol dire, e puntare i riflettori su una violenza forse meno sentita come tale, ma che violenza rimane.
Eppure, da un punto di vista pratico, gli allevamenti biologici possono sembrare migliori di quelli intensivi non solo per la salute umana e il rispetto ambientale, ma anche dal punto di vista del benessere animale. La questione, però, è che se è vero che in un allevamento non intensivo gli animali avranno sicuramente condizioni di vita migliori, questo è solo un “effetto collaterale” di un’attività pensata per inquinare meno e produrre carne più sana. Insomma, il fine ultimo degli allevamenti “bio” non è il benessere animale, che risulta solo una conseguenza di attività pensate in primis per avvantaggiare l’uomo e l’ambiente.
“È chiaro che parlare di interesse al benessere animale di creature da uccidere è una montatura costruita per tacitare le coscienze, o meglio, confonderle”, dichiarano i sostenitori del progetto, per i quali la situazione attuale non sarebbe altro che “un mezzo per conservare i privilegi degli umani nei confronti degli altri animali in generale, e di quella parte di umani che trae enormi profitti dalla loro schiavitù in particolare”. Una forma di pensiero non lontana da quella dell’antispecismo debole portata avanti da Leonardo Caffo, filosofo e attivista italiano, nel suo saggio “Il maiale non fa la rivoluzione”. Secondo l’autore l’obiettivo non può e non deve essere quello di convincere tutti a diventare vegetariani o vegani, ma piuttosto arrivare a un antispecismo che si prefigga la liberazione animale a prescindere dalle conseguenze di questa sull’uomo.
Anche il progetto della Bio-violenza non punta sulla promozione di un’alimentazione vegetariana o vegana, perché per farlo bisognerebbe focalizzarsi sui suoi vantaggi per la salute o l’ambiente: “dire che gli allevamenti (intensivi o meno) devono essere aboliti perché nuocciono all’ambiente o alla salute umana non fa che rinforzare la mentalità per cui gli schiavi di quegli allevamenti valgono meno delle esigenze dei consumatori umani“, si legge sul sito. Questo, nell’ottica del progetto, è assolutamente senza senso, così come lo è pensare di avvicinarsi a piccoli passi alla liberazione animale, nel modo in cui agiscono molte associazioni animaliste, con l’idea di un “meglio poco che niente”. Secondo la Bio-violenza, invece, “avallare i “piccoli passi” contribuisce solo a far apparire accettabile la strage degli animali e negare il loro diritto alla vita che, se è tale, lo è al cento per cento. Noi chiediamo giustizia per tutti e la giustizia non può essere a rate“, dichiarano.
Il progetto, portato avanti anche su un piano strettamente politico, promuove anche iniziative in piazza, fiere e congressi con l’obiettivo di denunciare l’ipocrisia degli allevamenti “bio”, ma anche di contestare gli apparati istituzionali che sostengono l’industria e l’ideologia di questo tipo di violenza. Perché, come ci ricorda anche la psicologa americana Melanie Joy, uno dei motivi segreti per cui mangiamo carne è che la maggior parte delle persone lo fa non per necessità o perché lo voglia davvero, ma piuttosto perché condizionata da un sistema di credenze istituzionalizzate e accolte come verità assolute nel corso del tempo, tanto che oggi distaccarsi da esse appare come strano e fuori dal mondo.
Storia degli allevamenti intensivi: dagli anni ’20 a Wendell Murphy
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