Le api sono diventate vittime dell’agricoltura intensiva e stanno scomparendo, tanto che le aziende, ora, sono arrivate persino al punto di doverle noleggiare. Ad indagare sulla situazione è stato Philip Lymbery nel libro Farmageddon (2014): l’autore, direttore di Ciwf (Compassion in World Farming International), la maggiore organizzazione internazionale per il benessere degli animali da allevamento. Il quadro delineato è inquietante: ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà della Gran Bretagna, prevalentemente per coltivare mangime per animali e allevare bestiame. La necessità di abbattere habitat naturali per creare spazi per monocolture, annienta l’habitat di questi insetti facendone diminuire drasticamente la popolazione.
L’incidente
Il 10 luglio 2012, nella piccola cittadina di Island Park City nell’Idaho (appena 215 abitanti), un tir esce di strada e si ribalta: il caposquadra dei vigili del fuoco Kenny Strandberg, intervenuto sul luogo, trova davanti a sé una scena inaudita. Centinaia di alveari sparsi sull’asfalto per un totale di 14 milioni (14 milioni!) di api ronzanti. Lavorarono tutto il giorno per togliere il miele dalla strada, temendo anche l’attacco degli orsi. Un incidente? Certo, ma indicatore di una nuova realtà.
L’impollinazione industriale
In certi periodi dell’anno, tre o quattro camion alla settimana rombano sulla Route 20 (quella dell’incidente sopracitato) trasportando api con destinazione California, dove sono richieste per il lavoro di impollinazione. L’impollinazione industriale, un giro di affari sempre più in voga, è dovuta alla progressiva scomparsa delle api stesse: in alcune parti del mondo infatti, come risultato delle colture intensive, non ce ne sono abbastanza per impollinare i raccolti e i coltivatori sono costretti a sborsare ingenti quantità di denaro per averle.
Bombi (parenti stretti delle api) e api domestiche sono sotto costante minaccia: in Gran Bretagna, che conta 24 specie di bombi, due si sono estinte negli ultimi 70 anni, sei sono in via di estinzione e metà delle rimanenti a rischio: l’Associazione Apicoltori Britannici teme addirittura che tutte le api locali possano scomparire entro dieci anni. Anche negli Usa, dove molte specie che fino ai ’90 erano comuni, sono ora scomparse. La maggior parte delle coltivazioni di frutta e verdura dipende dall’impollinazione delle api: un terzo dei prodotti agricoli nel mondo, quindi, è a rischio. E i governi di tutto il mondo, come al solito, stanno a guardare: a poco è servita l’udienza d’emergenza sullo stato degli insetti impollinatori nell’America del Nord voluta dalla Camera dei Rappresentanti statunitense, che ha anche stanziato cinque milioni di dollari per la ricerca.
Le api selvatiche sono state cacciate dalle monocolture inzuppate di prodotti chimici e i metodi di coltura intensiva le hanno private degli habitat variegati necessari alla loro sopravvivenza. Al loro posto, come dicevamo, il business delle api a noleggio: il carico caduto a Island Park valeva 250.000 dollari e le tariffe per i servizi delle api sono in crescita, con prezzi triplicati dal 2004. Ad oggi, noleggiare un alveare costa anche 180 dollari, prezzi alti che pochissimi possono permettersi.
L’industria delle mandorle
In California questo problema vige più che altrove perché l’industria delle mandorle ha un tale bisogno di api che molte colonie vengono importate persino dall’Australia. Ogni anno, alla fine dell’inverno o ad inizio primavera, tremila camion attraversano gli Usa portando circa 40 miliardi di api nella Central Valley, che ospita più di 60 milioni di mandorli. I frutteti coprono più o meno 240.000 ettari di terra, con filari quasi di 600 chilometri che producono l’80% del raccolto mondiale di mandorle. I prezzi? Altissimi: i coltivatori californiani spendono 250 milioni di dollari all’anno per le api. Insomma, i sistemi naturali di sostegno stanno scomparendo di fronte a tecniche agricole non più sostenibili.
La situazione in Cina
Ogni primavera i frutteti di peri nella provincia del Sichuan fioriscono, trasformando le colline in un paesaggio candido come la neve. Per secoli i contadini hanno aspettato che le api e il sole estivo facessero la loro parte, ma nel ventesimo secolo la natura è stata soppiantata dalle migliaia di persone che marciano dai paesi vicini per sostituirsi ad essa armati di strumenti di impollinazione rudimentali (fatti di piume di polli e filtri di sigarette): si arrampicano sugli alberi e immergono questi bastoncini in bottiglie di plastica piene di polline, poi picchiettano ogni singolo fiore. E molti di loro sono disposti a farlo per ore a fronte di una misera paga, a testimonianza di un fatto incontrovertibile: diritti animali e diritti umani sono più correlati di quanto si possa immaginare.
Pesticidi e fertilizzanti
Ancora si discutono le cause del calo nella popolazione delle api ma la maggior parte degli esperti lo attribuisce all’intensificazione dell’agricoltura e in particolare all’uso di pesticidi chimici e fertilizzanti: lo studio Pesticides Suspected in Mass Die-Off of Bees, pubblicato sul Los Angeles Times il 29 marzo del 2012, parla di Ssa, “Sindrome dello spopolamento degli alveari”, e dei neonicotinoidi, sostanze solubili in acqua simili alla nicotina che una volta spruzzati a terra sono assorbiti dall’intera pianta. Nel 2013 l’Ue ha votato per bandirne l’uso dalle colture che attraggono le api, ma l’Inghilterra ha detto no alla misura perché “la scienza non è ancora giunta a conclusioni certe”. L’uso di fertilizzanti artificiali con azoto ha reso inutile la rotazione delle colture, ormai datata, con cui le api si nutrivano prima, e i pesticidi hanno eliminato la maggior parte delle alternative naturali. Allo stesso tempo, però, sono scomparsi i luoghi adatti a nidificare: alcune specie vivono in terra nell’erba folta, altre nelle cavità del terreno, di solito tane abbandonate dai roditori. Le api, come si diceva all’inizio, sono diventate vittime dell’agricoltura intensiva esattamente come maiali, polli o mucche.
Cosa succede nei Paesi in via di sviluppo
Nei Paesi in via di sviluppo, dove i piccoli produttori non possono noleggiare alveari o pagare per l’impollinazione a mano, si teme che la riduzione dei raccolti possa provocare casi di malnutrizione. L’Onu stima infatti che circa il 70% dei raccolti che forniscono il 90% delle riserve di cibo dipenda dalle api per l’impollinazione. Cosa fare quindi? Prova a dare una risposta il dottor Parthiba Basu, ecologista dell’Università di Calcutta, che ha dimostrato i legami tra la diminuzione api e il rendimento dei raccolti: Basu è diventato esperto internazionale di api quasi per caso, quando stava studiando se fosse possibile per i contadini indiani abbandonare l’intensificazione promossa dal governo. Lavorando su un campione di 18 fattorie in 16 regioni dell’India, dalle pendici dell’Himalaya alle estremità paludose del subcontinente meridionale, ha convinto le aziende partecipanti – che prima erano concentrate su uno o due tipi di colture o allevamenti e usavano grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti – a provare l’agricoltura mista con diversi tipi di animali e di colture nello stesso luogo: anche se non divennero del tutto biologiche, si liberarono progressivamente dalla loro dipendenza dalle sostanze chimiche. I risultati? Strabilianti: dopo un anno, quasi tutte le aziende coinvolte avevano prodotto maggiori introiti (anche perché grazie alla diversificazione potevano essere produttive tutto l’anno anziché solo durante la stagione fertile dei monsoni).
Ma il dottor Basu aveva fatto un’altra scoperta interessante: le colture che dipendevano dalle api per l’impollinazione non avevano ottenuto grandi riscontri. “In particolare è stato impressionante nel Bengala, dove la pianta nota come Oro Dipinto (che dipende moltissimo dall’impollinazione), veniva impollinata a mano da un po’ in assenza di api”. Non essendo una pianta altissima che cresce in filari densi, spesso sono i bambini a svolgere questo lavoro perché non costretti a piegarsi e abili a infilarsi tra i filari. L’India produce circa 7,5 milioni di tonnellate di prodotti agricoli all’anno – il 14% della produzione mondiale – e ha subito una rivoluzione agricola negli anni Sessanta: mezzo secolo fa il subcontinente era fortemente dipendente dall’importazione, ora produce più di quanto serva a sfamare la sua popolazione, eppure ci sono ancora problemi di distribuzione e malnutrizione ancora diffusissimi. E spostandoci in altri Paesi in via di sviluppo la situazione non cambia, anche a causa della deforestazione.
“La presenza delle foreste è essenziale per garantire l’impollinazione, alle api servono gli alberi per sopravvivere. Se unisci i due fattori – l’uso dei pesticidi e la deforestazione – il collegamento è purtroppo evidente. La colpa è dell’agricoltura intensiva: avevo sperato che il problema dell’impollinazione nei Paesi in via di sviluppo non fosse altrettanto serio che in Occidente, ma non è così. Servirà un grande sforzo per invertire questa tendenza, ma sfortunatamente il mondo in via di sviluppo sembra andare nella direzione opposta, abbracciando l’intensificazione di stampo occidentale. Cioè più monocolture, più fertilizzanti chimici e pesticidi, e sempre più perdita degli habitat naturali necessari per le api”.
Una conclusione: Archim Steiner, direttore del programma ambientale dell’Onu, ritiene che come società stiamo lavorando nell’illusione che nel ventunesimo secolo l’uomo abbia le capacità tecnologiche per essere indipendente dalla natura. In un mondo di sette miliardi di persone, però, “le api evidenziano la vera realtà: siamo ancora più dipendenti dalla natura, non meno“.
Yuri Benaglio