Il 14 novembre del 1951 ci fu una delle più terribili esondazioni del Po. Antonio Ligabue, che in quegli anni viveva in Emilia Romagna, vicino a Guastalla, si salvò per miracolo. Perduta la sua casa, venne ospitato da una nota collezionista d’arte in cambio di un suo quadro. Ligabue realizzò per lei la Vedova Nera, considerata una delle sue opere migliori. Qui appaiono tutti gli elementi che più caratterizzano la sua arte. Sulla scena ecco un ragno che punge sul dorso un leopardo in procinto di aggredire una scimmia. Insomma, una catena animale in lotta per la sopravvivenza. Ma chi è davvero il più forte? Il felino, con gli occhi sgranati e le fauci spalancate, non è in realtà in una posa aggressiva ma è teso, in tutto il suo dolore, per la ferita inferta da quel piccolo ragno che non riesce a togliersi di dosso. La scimmia, invece, sembra essere atterrita più dalla paura del suo aggressore che non dal pericolo mortale a cui è sottoposta. Nel cielo, la luce della luna rischiara l’incubo di una notte infinita. A terra: uno scheletro umano.
Chi ha paura di chi nei quadri di Ligabue? Chi è davvero la vittima? L’innocente pare potersi salvare solo grazie al nemico del suo nemico. Se poi esiste un uomo, costui è un morto, uno scheletro, che nella Vedova Nera appare ridotto a pezzi.
Anime animali
Nella nostra lingua, tra animale e anima c’è la differenza di una sillaba. Non è solo questione di parole, tra il concetto di animale e quello di anima esiste un profondo legame. L’ etimologia ci può aiutare nel ricordarci che entrambi i termini affondano le radici nel greco ànemos ovvero vento, soffio vitale o spirito. Ecco, dunque, la prima cosa che caratterizza un animale: il respiro. Che animali e anima abbiano qualcosa da spartire lo sapeva bene Ligabue che per tutta la vita ha provato a divenirne consapevole: sin da bambino, infatti, quell’afflato ha abitato il suo corpo con molta violenza.
Anche secondo alcune antiche culture indigene gli animali diventavano spiriti, venti, immagini di fumo emerse intorno a un fuoco dove le tribù si riuniscono, per invocare il loro aiuto e consiglio. Ecco che gli animali di Ligabue sono spesso selvaggi, circondati da nature esotiche che il pittore non aveva mai visto dal vivo, ma che divennero lo specchio di qualcosa di ancestrale proprio della sua stessa psiche.
È durante il primo Novecento abitato da Ligabue che lo psicoanalista Carl Gustav Jung userà la parola dáimōn, letteralmente “spirito guida”, per connotare quella sorta di emisfero animale, quella parte ombra, demoniaca e nascosta dentro ciascuno di noi. Se ignorato, il dáimōn può causare profonde insofferenze per l’anima, come lo stesso Jung spiega nel suo libro Ricordi, sogni, riflessioni (1961): “L’ uomo spinto dal suo demone […] entra veramente in regioni inesplorate o da non esplorare, dove non ci sono strade segnate, e nessun ricovero offre la protezione di un tetto”.
Così più quest’anima e questo respiro si fanno consapevoli più c’è spazio per far sì che animale e uomo diventino una cosa sola. Imitare con il corpo un elefante, un coniglio o una tigre fu per Ligabue un procedimento del tutto necessario a introiettare quel preciso soggetto da raffigurare sulla sua tela. Tutto quello che per Ligabue era vissuto come “normale”, tuttavia, non fu mai compreso da coloro che lo conoscevano, e per i quali lui era solo Toni al mat: Toni il matto.
Chi è Antonio Ligabue?
Antonio Ligabue, nacque – per la prima volta – nell’ultimo anno dell’Ottocento, il 18 dicembre del 1899. Nacque con il cognome della giovane madre, Elisabetta Costa, rimasta incinta per errore e costretta a emigrare in Svizzera, tanto per la miseria quanto per la vergogna. È a Zurigo che sua madre si unirà con un certo Bonfiglio Laccabue, un povero emigrato dall’Emilia Romagna.
Furono tanti gli italiani che, in quegli anni, varcato il confine alla ricerca di un posto di lavoro, vennero arruolati a scavare i trafori per la nuova linea ferroviaria dello Stato svizzero. Un lavoro durissimo che, sotto terra e ad altissime temperature, portò alla morte di moltissimi operai. Quando non si moriva di lavoro, si crepava di odio: gli svizzeri furono sempre restii a sopportare quei “parassiti” giunti dall’Italia a rubar loro lo stipendio. Ma di parassiti – veri – in quel periodo, era pieno il mondo. Da quelli che colpivano i campi agricoli, al temuto anchilostoma che, sotto terra, soffocava i minatori. Ma c’era un’ultima classe di parassiti: gli speculatori sul lavoro, quei mostri che, nelle miniere, erano disposti a farsi pagare un bicchiere d’acqua di fronte a chi moriva di sete.
Sono queste le storie che accompagnarono l’infanzia e la giovinezza del futuro pittore Ligabue. Favole terrificanti che, senza parole, egli tradusse in un linguaggio comprensibile a tutti: il disegno. Ecco bachi, brusoni, mosche, pebrine, parassiti visibili e non, olearie e molti altri piccoli animali. Per Ligabue non si trattava solo di insetti ma di veri e propri nemici, li rappresenterà enormi e sproporzionati sia rispetto alle persone che agli ambienti circostanti.
Se da un lato il parassita è il nemico, dall’altro capita che il nemico coincida con sé stessi. Ligabue, quei pericolosi e minuscoli esseri ingombranti, li conosceva bene, soprattutto, nel loro non essere desiderati da nessuno. Ancora bambino, infatti, dopo che sua madre – con il nuovo compagno Laccabue – avrà messo al mondo altri tre figli, sarà affidato a una coppia di svizzeri, i signori Göbel, nell’abisso di una domanda che lo accompagnerà per tutta la vita: perché avevano rifiutato proprio lui? “A me non mi hanno voluto”: ecco la risposta che Antonio si darà.
Ligabue si sentì sin da piccolo come l’unico uccellino indegno a stare nel nido e destinato al rischio di essere predato da un momento all’altro, proprio come uno di quei volatili da lui dipinti mentre un’enorme tarantola lo divora. I pochi momenti felici della sua vita furono segnati dal suo incontro dal vivo con gli animali. Una visita allo zoo da ragazzo, seguita da una breve collaborazione con un circo di cui disegnò le insegne pubblicitarie in cambio di colori e di qualche piatto caldo di minestra. Anche nei momenti di assoluta povertà, Ligabue non smise mai di dipingere. Come quando, rimasto senza soldi per acquistare altri colori, sporcò le sue tele di fango e altri espedienti gratuiti.
La follia e gli animali guida
Ligabue soffrì anche di epilessia, ma ogni volta che qualcuno lo trovò nel bel mezzo di una crisi mentre si dimenava a terra – come un pesce fuor d’acqua -, ecco che finiva per essere sbattuto dentro a qualche manicomio. Il 6 dicembre 1948, dimesso da uno dei tanti ricoveri di salute mentale, iniziò per Antonio una nuova vita: decise di chiamarsi Ligabue e di essere un artista. Fece ritorno in Emilia ad affermare la sua carriera e a cercare una sposa. E così, in cambio di un quadro, trovò l’amata: una Moto Guzzi rossa, usata. Il suo cavallo. La sua tigre rubino. La sua libertà. Sulla moto Antonio ci percorse tutta la Pianura Padana, con le tele da vendere e le gabbie dei conigli che trasportava per la pittura dal vivo. Aveva capito che, per non essere giudicato matto, gli conveniva vivere da solo e gli unici esseri di cui imparò a fidarsi davvero furono gli animali. Ma isolamento, per lui, non significò mai menefreghismo: dalle Brigate Rosse, alla strage di Reggio Emilia – del 1960 – sarà tanta la violenza che attraverserà la sua sensibile anima. Anche quando, finalmente, si affermerà come pittore, non rimarrà mai distante dalle questioni sociali, nutrendo un particolare interesse verso la cronaca nera a lui contemporanea, soprattutto per quei pezzi in cui – come diceva lui – “gli uomini ammazzano le donne”. E così quando andava al bar, dal barbiere o dal meccanico una delle cose che chiedeva sempre era che qualcuno gli leggesse quegli articoli sul giornale.
“Ligabue, ma perché proprio queste storie?”, gli chiedono gli altri. “Per il sangue, la violenza…”, rispondeva il pittore. “Ma se vi fa orrore anche solo vedere la carne appesa ai ganci della macelleria e non volete mangiarla…”. lo incalzano. “Se si ammazza un cavallo non va bene… Non è mica giusto che il cavallo lavori tutta la vita per il padrone e poi quello lo ammazzi e se lo mangi”.”Solo per un cavallo non sarebbe giusto? – continua il mondo attorno a lui – Quindi degli uomini non vi importa niente?”. “Mi importa sì, ecco perché mi faccio leggere il giornale!”. «Quindi godete a sentire queste storie?”. “No! Queste storie mi fanno paura. Mi domando perché si ammazzano. Mi sembrano tutti matti”.
Foto in apertura: Tigre reale, s.d. (1941), china e pastelli a cera su carta intestata dell’Istituto psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, 36×50 cm, collezione privata, Reggio Emilia